*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 47888 ***
SCRITTI
DI
F.-D. GUERRAZZI.
I BIANCHI E I NERI.
dramma.
FIRENZE.
FELICE LE MONNIER.
1847.
I BIANCHI E I NERI,
DRAMMA.
Tu porterai novelle di sospiri
Piene di doglia e di molta paura;
Ma guarda che persona non ti miri
Che sia nemica di gentil natura.
GUIDO CAVALCANTI.
PERSONAGGI.
BIANCHI
MESSER GUALFREDI.
MESSER GERI _suo figlio_.
BIANCA _sua figlia_.
MANENTE.
GUIDO.
NELLO, _ed altri Fanti_.
UBERTO _capo di masnada_.
VANNI.
UGHETTO.
BACCIO.
DONATO _ed altri Masnadieri_.
NERI
MESSER LEMMO.
MESSER DORE.
FRA LOTTERINGO _cavaliere Gaudente_.
UOMINI, _che parlano_.
_La Scena: in Pistoia._
FATTO STORICO.
«Nel 1300 la detta città (di Pistoia) haveva assai nobili e possenti
cittadini, infra i quali una schiatta di nobili e possenti cittadini e
gentil'huomini, li quali si chiamavano Canceglieri, et havea quella
schiatta in quel tempo dieciotto cavaglieri a speroni d'oro, et erano sì
grandi e di tanta potenza, che tutti gli altri grandi soprastavano e
batteano: e per loro grandigia e ricchezza montarono in tanta superbia,
che non era nessuno sì grande, nè in città nè in contado, che non
tenessono al disotto; molto villaneggiavano ogni persona, e molte sozze
e rigide cose facevano; e molti ne faceano uccidere e ferire, e per tema
di loro nessuno ardia lamentarsi. Seguitoe che certi giovani della detta
casa li quali teneano la parte Bianca, ed altri giovani della detta casa
i quali teneano la parte Nera, essendo a una cella ove si vendea vino,
et avendo beuto di soperchio, nacque scandalo intra loro giucando; onde
vennero a parole, e percossonsi insieme, sì che quello della parte
Bianca soprasteo a quello della parte Nera, lo quale avea nome Dore di
messer Guglielmo, uno dei maggiori della casa sua, cioè della parte
Nera. Quello della parte Bianca che lo avea battuto, avea nome Carlino
di messer Gualfredi, pure dei maggiori della parte Bianca. Onde
vedendosi Dore essere battuto et oltraggiato, e vitoperato dal consorte
suo, e non potendosi quivi vendicare, però ch'erano più fratelli a
dargli, partissi, e pruoposesi di volersi vendicare; e quel medesimo dì,
cioè la sera a tardi, stando Dore in posta, uno dei fratelli di detto
Carlino che aveva offeso lui, che aveva nome messer Vanni di messer
Gualfredi, et era giudice, passando a cavallo in quel luogo dove Dore
stava in posta, Dore lo chiamò, et egli non sapendo quello che il
fratello gli aveva fatto, andò a lui, e volendogli Dore dare di una
spada in su la testa, messer Vanni per riparare lo colpo parò la mano:
onde Dore, menando, gli tagliò il volto e la mano per modo, che non ve
gli rimase che il dito grosso. Di che messer Vanni si partio, et andonne
a casa sua; e quando lo padre e' fratelli e gli altri consorti lo videro
così fedito, n'ebbero grande dolore, però ch'egli era, come detto è, dei
migliori del lato suo: ed anco perchè colui che lo aveva fedito era
quello medesimo intra quelli del suo lato; di che tutti gli amici e
parenti loro ne furono forte malcontenti. Lo padre di messer Vanni e i
fratelli pensarono per vendetta uccidere Dore, e il padre e i fratelli e
consorti di quello lato. Eglino erano molto grandi e molto imparentati,
e coloro gli temeano assai, e tanta paura aveano di loro, che per
temenza non usciano di casa. Onde vedendo il padre, e' fratelli, e'
consorti di Dore che li convenia così restare in casa, credendo uscire
della briga, deliberarono di metter Dore nelle mani del padre e dei
fratelli di messer Vanni che ne facessono loro piacere; credendo che con
discrezione lo trattassono come fratello: dopo questa deliberazione
ordinarono tanto che feciono pigliare Dore, e così preso, lo mandarono a
casa di messer Gualfredi e del fratelli di messer Vanni, e miserlo loro
in mano. Costoro, come spietati e crudeli, non riguardando alla
benignità di coloro che gli lo avevano mandato, lo misono in una stalla
di cavalli, e quivi uno dei fratelli di messer Vanni gli tagliò quella
mano con la quale aveva tagliato quella di messer Vanni, e diedegli un
colpo nei viso in quel medesimo lato dov'egli aveva fedito messer Vanni,
e così fedito e dimozzicato lo rimandarono a casa del padre. Quando lo
padre, e' fratelli, e' consorti del lato suo, ed altri suoi parenti lo
videro così concio, furono troppo dolenti: e questo fue tenuto per ogni
persona troppo rigida e crudele cosa a metter mano nel sangue loro
medesimo, e spezialmente avendolo loro mandato alla misericordia. Questo
fue lo cominciamento della divisione della città e contado di Pistoia,
onde seguirono uccisioni di uomini, arsioni di case, di castella, e di
ville.» — Così le _Istorie Pistoiesi dal 1300 al 1348_, dalla Crusca
tenute di anonimo scrittore, e nelle note all'ultima edizione dello
Ammirato, attribuite a Iacopo di Franceschino Ambrogi.
«Focaccia fu dei Cancellieri di Pistoia, e a tradimento uccise un suo
zio. Nel 1300 erano in questa famiglia tre fratelli, e Focaccia, giovane
audacissimo e di pessimi costumi, era figliuolo di uno di questi.
Intervenne che, giucandosi alla neve, il padre di Focaccia percosse un
suo nepote, perchè troppo acerbamente aveva con la neve percosso un
altro fanciullo, e questo fece come a sua famiglia, sendo zio. Ma il
fanciullo, più temerario e più maligno che non richiedea la sua età,
dissimulò il dolore, e dopo non lungo spazio finse volergli parlare
all'orecchio: chinossi il zio, e il fanciullo gli dette una ceffata.
Dolsene il padre, che rimandò il fanciullo al suo zio perchè lo punisse
a suo modo. Ma egli stimando che più non si bisognasse pel fatto di un
fanciullo, in luogo di batterlo, lo baciò in volto, e rimandollo al
padre. Ma lo scellerato Focaccia, suo figliuolo, tagliò la mano a questo
fanciullo, dipoi corse a casa del padre, che era suo zio, ed ucciselo.
Dal qual parricidio ne nacque tanto scandalo, che tutta Toscana ne fu
molti anni tribolata, perchè di qui ne derivarono le parti dei Bianchi e
dei Neri, che divisero prima Pistoia poi Firenze.» — Così il Landino,
_Commento di Dante, Inferno_, Canto XXXII.
«Era fra le prime famiglie di Pistoia quella dei Cancellieri. Occorse
che giuocando Lore di messer Guglielmo e Geri di messer Bertaccio, tutti
di quella famiglia, e venendo a parole, fu Geri da Lore leggermente
ferito. Il caso dispiacque a messer Guglielmo, e pensando con la umiltà
il torre via lo scandalo, lo accrebbe; perchè comandò al figliuolo che
andasse a casa il padre del ferito, e gli domandasse perdono. Obbedì
Lore al padre; nondimeno questo umano atto non addolcì in alcuna parte
l'acerbo animo di messer Bertaccio, e fatto prendere Lore dai suoi
servitori, per maggior dispregio sopra una mangiatoia gli fece tagliare
la mano, dicendogli: Torna a tuo padre e digli _che le ferite con il
ferro e non colle parole si medicano_. La crudeltà di questo fatto
dispiacque tanto a messer Guglielmo, che fece pigliare le armi ai suoi
per vendicarlo, e messer Bertaccio ancora si armò per difendersi; e non
solamente quella famiglia, ma tutta la città di Pistoia si divise.»
Niccolò Machiavelli, _Istorie Fiorentine_, lib. II.
Certo, maraviglia non poca apporterà ai leggitori, il pensiero come per
tanti scrittori siasi potuto tanto diversamente narrare un medesimo
fatto. Quantunque però li citati sien quelli che viemaggiormente tra
loro diversificano, ciò non s'intenda già che altri infiniti, o
contemporanei o posteriori all'avvenimento, concordino; chè anzi
trovammo esser varii, e negli anni in che accadde, e nel modo della
ferita, e nella cagione del nome, e nelle persone eziandio. Simone della
Tosa, negli Annali, parla nel 1300 di questa fazione come di cosa già da
qualche tempo avvenuta, non pure in Pistoia, ma sì ed anco in Firenze.
Paolino di Piero, nella _Cronachetta_, la rammenta nel 1297 al modo
stesso di Simone. Tolomeo lucchese, vescovo Torcellense, negli _Annali_,
ne deriva l'origine fino dal 1286; e questa opinione è stata
modernamente seguita dal Pignotti e dal Sismondi. Per la ferita,
osservammo le Storie Pistoiesi contare di uno sfregio sul volto, e di
una mano tagliata per modo, che non vi rimase appiccato che il dito
grosso. Tolomeo Lucchese tace del volto, e dice che tre sole dita furono
recise; Il Machiavelli narra la ferita essere stata leggiera. Il Landino
semplice percossa. La cagione del nome dal Salvi nelle _Memorie Storiche
della città di Pistoia_, dal Fioravanti nelle _Storie di Pistoia_, dal
Machiavelli e da altri infiniti, si attribuisce a due mogli che furono
di messer Cancelliere, di cui l'una si chiamò Bianca, l'altra Nera. Dal
Ferretto Vicentino alla diversa capelliera di messer Guglielmo e di
messer Gualfredi, che nera quegli, bionda questi aveano sortito dalla
natura. Nè manca chi la derivi dall'aver tolto una parte per divisa il
Bianco, e l'altra, per opporsele meglio. Il Nero. Finalmente nelle
persone; perocchè il ferito ora è Vanni, ora è Pelleri, ora è Geri, e il
feritore or Dore, or Focaccia e or Lore. Non senza consiglio poi ci
prese vaghezza di tutte questo cose discorrere, imperciocchè se
Istoriografi eccellenti, il principale studio dei quali dovea porsi in
ricercare la verità, hanno tanto e diversamente parlato di questo
atrocissimo fatto, confidiamo non sieno per saperci malgrado i cortesi,
se in questa Opera nostra, in che noi non facciamo officio da Storico,
dilungati alquanto da tutti l riferiti racconti, narrammo la novella pur
noi a modo nostro.
ATTO PRIMO.
Amor celato fa sì come fuoco
Il qual procede senza alcun riparo;
Arde, e consuma ciò che trova in loco,
E non si può sentir se non è amaro.
CINO DA PISTOIA.
SCENA I.
Luogo remoto dietro Damiata castello dei Cancellieri. È vicina l'_Ave
Maria_ del giorno.
GERI, MANENTE.
_Geri_ Credi che in buio eternamente cupo,
Simile a questo, senza fine il mondo
Sarà sepolto un dì?
_Manente_ Credo.
_Geri_ E che un giorno
La condanna tremando intenderai,
Che in guaio interminabile t'inchiodi
Giù nell'Inferno disperato?
_Manente_ Credo.
_Geri_ E credi ancora ch'ove il nuovo sole
Diffonda il raggio su la fronte a Dore,
Occhio di Dore non vedrà più sole.
_Manente_ Geri, — pensate al fine.
_Geri_ A qual mai fine?
Se di vita, — fors'io temo la morte?
_Manente_ No, vivadio, siete valente, o Geri,
Come la lama di questo pugnale,
Cui mai fu d'uopo raddoppiare il colpo.
_Geri_ Che altro terrammi, or via, se non è morte?
_Manente_ La pena degl'infami...
_Geri_ O masnadiero,
Poichè pria del capestro la speranza
Scorgi, codardo, tra l'opra e la pena,
Tal tu tremi: — non io: se un ferro stringo,
Ei dee passare certamente un core,
O lo inimico o il mio. — Parato a tutto,
E fermo che ove più cadami in fallo, —
Capo che tal si avvisa, indarno spera
Starsi lunga stagion sul busto all'uomo.
E poi — nullo qui vede, — eternamente
Ei tacerà. — Chi bene ha fesso il core
Lingua non snoda.
_Manente_ E il sangue?
_Geri_ Hai tu mai inteso
Gridare il sangue?
_Manente_ E Dio?
_Geri_ Dimmi, Manente,
Se' tu di quelli che perduto il cielo
Temono poi l'inferno? A te sta a dire
Di Dio, a te? Conta del ciel le stelle:
Tanti, e più, sono i tuoi misfatti.
_Manente_ E voi
A vostra posta il ciel guardate: — un occhio
Eterno veglia colassù che scerne
Anco pel buio della notte; — un braccio
Che aggrava il capo dell'iniquo. — Dite,
Sapete voi quanto un delitto pesa?
Vedeste mai quando lo stanco senso
Lascia libera l'alma, appiè del letto
Starsi un demonio che vi guata fiso,
E ride, e aspetta al varco della vita
Il fiato eterno per piombarlo dentro
Allo abisso infinito? E voi pauroso,
Chiamare e Cristo e i Santi; e di repente
Scendere l'Agnol del Signore, e vôlto
A quello delle tenebre: — Vediamo,
Dirgli, a cui spetta; — e qui cavare un scritto
Breve, in che stanno i merti, e l'Infernale
Sporger volume immenso, e pieno tutto
Di colpe, e all'Agnol dire: — Or va beato;
Quando per fuoco sarà fatto puro,
Riedi per esso; — e quei partirsi, e un guardo
Volgerti, — un guardo che disvela tutto
E l'inferno acquistato, e il ciel perduto.
In questa l'Infernal ruinarti addosso,
E stringerti alla strozza, e dalla fronte
Graffiarti il crisma e conficcarvi il segno
Di Caino; — e voi ansoso e a forza desto, —
Esterrefatto trabalzar dal letto.
Come lapide freddo, e andar cercando
Al lume di una lampada conforto...
_Geri_ Io ti credea senza rimorso: — all'opra
Basto solo...
_Manente_ Messer, che dite? — male
O voi intendeste, od io parlai. — La porta
Della misericordia è per me chiusa,
Nè questo labbro, via della bestemmia,
Può dir parola che suoni preghiera.
Nè io, nè altri per me prega: — un'opra
Saria perduta. — Guai! se un giorno io cesso
Addensarmi sul capo la vendetta
Dell'Eterno. — Guai! se un punto io poso;
Disperato un pensiero allor m'assale.
Feroce un'ira, — un'agonia di morte.
Vivo di sangue come d'aere; — ond'io
Nè vo' lasciarvi, o posso, chè su quante
Son cose al mondo a me più grata è questa.
_Geri_ Ben volea dir ch'io m'ingannassi. — Or dove,
Dimmi, accennava il sermonar tuo dianzi?
_Manente_ Tanto è lo stato mio tremendo, — è tanto
Crudo, che in altri mi farla pietade:
Deh! non saperlo tu. — A me l'incarco
Di spegner Dore lascia, — a me che sono
«Per disperazion fatto securo.»
Il terzo giorno ciberò del pane
Nel vin temprato su l'arca del morto,
Nè i suoi consorti ancideranmi. — Questo
Bastami. — Questo sol dal Cielo io chieggo;
Più che possibil fia tardi — mi piombi
Giù nell'Inferno.
_Geri_ Oh gran mercè! — Ma quale,
Dimmi; è il sapor della vendetta?
_Manente_ Frutto
Crear Dio, che il desso non volle.
_Geri_ E ben volle.
E a tor vendetta che daresti?
_Manente_ Dove
Per me non fosse chiuso, — il cielo.
_Geri_ Or sappi,
Questa cacciarmi tra le mani il ferro.
_Manente_ Che! — V'offendeva Dore?
_Geri_ Atrocemente,
E sempre; — e l'odio, e lo vo' spento. Intendi?
Alcun qui move, odi un mutar di passi;
Vieni; — t'ascondi...
_Manente_ Seguovi...
_Geri_ Rammenta
I dì che furo.
_Manente_ E voi — quei che verranno.
SCENA II.
DORE, BIANCA.
LI DUE SVENTURATI.
LAMENTO.
_Dore_ Torna il verno. — Le fronde alla foresta
Svelle e mena feroce in giro il vento;
È triste il colle, la pianura è mesta;[1]
Dell'usignolo il melodiare è spento:
Il veltro per la notte alza la testa
Esterrefatto, e prorompe in lamento;
Orrore spira ogni cosa e paura,
Sembra che gema Dio su la Natura.
Dai campi seminati di umane ossa
Torna la squadra, e il trepido sospiro
Cessa la sposa amata che si è mossa
Al caro amplesso, ed il padre deliro
Di abbracciare il figliuol pria che alla fossa
Lasci la carne e a Dio l'eterno spiro.
Securo che nel dì di morte santo
Ei glieli chiuda, or terge agli occhi il pianto.
Gino non torna a Oretta. Sventurata!
La mano della madre il bianco velo
Avea trapunto, e i fior di fidanzata
Esultante reciso dallo stelo.
Quella mano per morte ora è ghiacciata!
Rigido stringe quei fioretti il gelo!
La squilla i prodi alle difese affretta;
Gino partiva e non tornò più a Oretta.
Ei non reddiva più. La disiosa,
— Come colei che il suo mal teme, e spera, —
Ne fea dimanda: — Il cavalier riposa
Nella morte, risposerle; — sua schiera
Combattendo perì da valorosa, —
Chè co' forti quel giorno Iddio non era. —
Volse al ciel gli occhi Oretta, e dolce in atto
Disse: — Signore, il tuo voler sia fatto.
Buio d'Inferno per lo cielo assembra
Notte, e sul mondo per silenzio tetro
Solennemente spiegalo, e rassembra
Manto di trapassato in sul feretro;
E il cupo mugghio del mare rimembra
Gente che pianga in lamentoso metro,
Nè tutt'uom dentro le paterne porte
Dorme il sonno fratello della morte.
Per questa notte dubitante e lento
Move Gino alla casa del suo amore;
Chè giacque offeso e non rimase spento
Nel giorno maledetto del furore.
La casa è vuota, e sol vi stride il vento;
Ond'egli grida in voce di dolore: —
Oretta, — Oretta, non ti vedrò più!
L'eco dei monti gli risponde — più.
Sorge un dì senza sole. Il cavaliere
Pallido in faccia e con occhi compunti,
Mesto mesto incamminasi al piviere
Co' bracci in croce sul petto congiunti.
Giunge: — e Oretta dov'è? domanda al Sere;
Quei cela il volto, e il campo dei defunti
Gli accenna. Ei corre. — Novamente smossa
Comparisce la terra di una fossa.
È la tomba di Oretta. — Eterno pianto
Con la rugiada spargevi Natura...
Cessa la umana lagrima col canto
Che accompagna gli estinti in sepoltura.
Ahi! l'anima quantunque sotto il manto
Di Dio ripari, e in lui si faccia pura,
Se un pio ricordo l'Angiolo le porta
D'alto gaudio anco in Cielo si conforta.
Fioria modesto su la tomba un giglio
Alla infelice vergine: — lo colse: —
Tal tu passasti un dì; — qual mai consiglio
Riporrà il fiore ove mia man lo tolse?
Chi a rianimare Oretta trarrà il figlio
Del soffio eterno ove disio lo volse?
Qui Gino tacque: ora riposan l'ossa
Di quei due travagliati in una fossa.
_Bianca_ Mesto è il tuo canto, o Dore; è mesto come
Pianto di madre che il morto sembiante
Del figliuolo involarse per la polve
Vede curva sull'orlo della fossa. —
Donna del Cielo, ella è menzogna in core
Del giusto un seggio aver la pace; e i deschi
Fuggire, e i letti, ove riso di pianto
Ride, e sonno di spine il fallo dorme?
_Dore_ O mia diletta, e può turbar fantasma
Di colpa lui che dal tuo sguardo ha vita?
Celeste cosa son l'anima e gli occhi
Tuoi, e allor che pietosi al ciel li movi,
Ogni spirto li segue in paradiso. —
Io son tranquillo, — ma di pace stanca.
Giaccio, — ma non riposo, — e sento tale
Una quiete, che sarà nel giorno
Dell'ira, quando staranno il giudicio
Di Dio tremendo ad aspettar le genti.
_Bianca_ Dal profondo del cor volgiti a Dio;
Chiama, e risponderà. — Qual madre sorda
Fu al grido dell'infante? A quale afflitto
Non sovvenne invocato il sommo Dio?
_Dore_ Il libro della vita è scritto: — è fissa
Del dolor la misura, e della gioia
È destinata, o Bianca: — e noi siam fiumi;
Rapidi discorriamo per la china
Entro un letto fatal, finchè ne accolga
Lo abisso della eternità.
_Bianca_ Ma Dore,
Voi fate ingiuria al vostro Dio. — Qual mai
Fu il fattore che odiasse sua fattura?
L'arbore ei dette della vita, e noi
Cibammo il frutto della morte; — noi
Liberi come il raggio del pianeta. —
Se il sapere di Dio conosce il fine.
Non però il move; qual uom su la riva
Mira la navicella indirizzarse
Secondata dal vento al suo cammino.
_Dore_ Oh parole celesti! O Bianca, bella
Come il sorriso della prima madre
Quando innocente si specchiava in Dio;
Tu sola degna di parlar dei cieli;
Nè cor più puro, nè più santo labro
Mai innalzò prece: e che mai dirti io posso?
Il mio intelletto vinci, eppur da molti
Anni mi è aperto il mio destino. —
_Bianca_ Quale
Ruppe il velo del tempo, ed il futuro
Vide presente? — Forse tu, con arte
Che il Cielo aborre?
_Dore_ Turbare io la polve
Che riposa? — Io turbar l'ossa dei morti
Guardimi Dio! — Rammenta i giorni andati
In che un tetto copriva i nostri padri,
E non violato era l'amplesso, e quella
Speme ei nudrivan ch'or contesa è ai figli...
_Bianca_ Ahi che rammenti, o Dore!
_Dore_ E pur rammenta
La notte turbinosa in ch'io, chinato
Il capo sul tuo grembo, ascolto dava
Al novellare dell'antica Lena...
Povera Lena! or non è più: — che Dio
Faccia pace a quell'anima. — Repente
Fu battuto al castello; — era un Palmiero
Che chiedeva per Dio posare il fianco
Sotto il tetto dell'uomo.
_Bianca_ Oh se il rammento!
Coi labbri che baciaro il gran sepolcro
Ei mi baciava; — questa ch'ei donommi
Portai sempre sul core.[2]
_Dore_ Egli accostossi
A noi, — la man c'impose: — E voi godete,
Disse, il piacer della innocenza, e l'ora
Della pace; — ch'ella è di vita il lampo,
E le succede tenebra di pianto,
Di misfatto di pena e di rimorso...
Si volse, e lagrimò; — dal ciglio cadde
La lagrima, io l'accolsi, e da quel giorno
In questo cuore è viva.
_Bianca_ Ei ben si appose:
Non siam noi infortunati?
_Dore_ Più tremenda
Sventura io temo.
_Bianca_ Ed è?
_Dore_ Perderti, o Bianca.
Gran Dio! non sai di quale amore io t'ami,
Perchè non fu, nè sarà mai favella,
Che valga a dire ogni pensier di amore. —
Odi visïon che testè m'apparve. —
Suonata era la squilla degli estinti,
Ch'io fui tratto in misterioso sogno. —
Pareami uniti andassimo l'amore
Nostro a sacrar nel tempio: — il guardo volsi
Su i comitanti, e non conobbi amico,
Ma strani tutti; — aveano intento il ciglio,
La pupilla velata; — al tuo bel volto
Il raddrizzai, — tu non avevi il serto
Di sposa, — eran viole; — e già sospeso
Tenevi il piè per valicar la porta,
Quando dall'alto tal mosse una voce, —
Di tua madre era voce: — Vieni, o amata.
Dalla valle del pianto al sen materno,
Vieni, ripara in Dio. — E tu sorgevi,
Qual portò la colomba olivo al giusto,
Nel gemito dell'anima io ti chiamo,
Ma tu non odi, e su le sante piume
Di un immenso desio librata, voli
Vie, vie più lieve pel sereno azzurro...
L'anima afflitta ama seguirti, — scuote
Di Adamo il carco, ma nol spezza, e tutta
Anelante il dì eterno si dibatte
Pei lacci della vita. — Tal mi sveglio
Freddo, affranto, dolente, e il corpo e l'alma
Sono una piaga.
_Bianca_ Se nel cielo è fisso
Che sia tale il mio fato, o Dore, vivi,
Vivi alla patria, e ad alle cose intendi...
Pensa alla madre Italia: — ella sospira
Da lungo un figlio di lei degno, — indarno.
Pensa all'Italia:... e... qualche volta ancora
Deh! pensa a Bianca tua;... ma non sia quello
Pensiero di dolor. — Nel ciel beata
Godrò di tua virtude, e se mai avviene
Nel giorno della gloria un'aura senta
Aleggiarti soave intorno al volto.
Di': — Questa è l'alma della mia diletta.
Che fa omaggio di amor, siccome è dato
Ad immortale.
_Dore_ Oh! vivrà pria il creato
Senza la stella che conduce il giorno.
Eppure qui nell'anima mi suona
Triste una voce che mi dice: Mai
Più con la Bianca parlerai di amore;
Mai più la rivedrai. — Quindi al cospetto
Di Dio e di tua madre or sii mia donna.
_Bianca_ O Dore!
_Dore_ Se quest'alma da me fugge,
Forza è che vada a secolo immortale
Con la tua fede.
_Bianca_ O Dore!
_Dore_ Ecco l'anello
Che dà una sposa al Cancellieri. — Il padre
Mio alla sua lo concedeva. — A Bianca
Porgelo Dore...
_Bianca_ E nol ricusa Bianca;
E t'abbi in cambio questo mio. — Dal letto,
Ove giacea la moribonda madre,
Questo raccolsi e un bacio. — Io con te lieta
Il legato divido. — Ecco l'anello;
Lasciami il bacio: — pago sei?
_Dore_ Son pago.
_Bianca_ Omai più rade e pallide pel cielo
Fansi le stelle... Intendi?... il sacro bronzo
Suona la prece del mattino;[3] sembra
Che flebile lamenti su la luce
Che sorgerà tra breve a illuminare
Le sventure dell'uomo ed i misfatti.
Donna del Cielo, ah! tu soave inspira
Senso quaggiù; — tu di alcun fiore adorna
Questo calle di spine; — i duri sdegni
Vedi, e la gente che su questa zolla
Si divora incessante. — Alfin la terra
La inghiotte, e invano; — chè la nuova schiatta
Sorge, e su l'ossa dei padri contende!
Donna del Ciel, fa che la via del ferro
Oblii la destra, e sol dell'uom si stenda
A impalmare la destra. — Oh! non consenta
Voce all'ingiuria il varco, e sol le labbia
Suonino il verbo della pace; — salve
Fratello.
_Dore_ Così sia.
_Bianca_ Dore, la gioia,
Di Dio sia teco.
_Dore_ O dolce Bianca, — addio.
SCENA III.
DORE.
Travagliata nell'anima si parte
Senza conforto. — Oh pace almeno al giusto!
Sul letto della vergine dall'ale
Scuota l'Agnol di Dio i sogni vaghi
Dei colori dell'iride. — Signore,
Se la misura del tuo sdegno è colma.
S'è ver che i figli den portare il peso
Dei paterni misfatti, — ecco io mi t'offro
Vittima espiatoria, — alma per alma, —
Sangue per sangue; — fulmina, ma cessa
Dalle vendette... e perdona. — Son tristi
I figli tuoi... son crudi... ma infelici;
E tu sei padre alfine... Dio, perdona!
SCENA IV.
GERI, MANENTE, E DETTO.
_Geri_ Senti amasio quadrel di amore è questo?[4]
_Dore_ Ahi traditore![5] E tu se questa è pena
A tradimento.
_Geri_ Son morto!...
_Manente_ Non senza
Vendetta...
_Dore_ Oh quanti siete! Iddio m'aiti.
_Manente_ E me l'inferno.[6] — Cavalier, mercede
Per Cristo!
_Dore_ Tolga il ciel, che in te si brutti
Ferro onorato: — ti aspetta la scure. —
Vivi, e se puoi, ti penti.
SCENA V.
GERI, MANENTE.
_Manente_ Niun qui geme. —
È trapassato...
_Geri_ Manente!
_Manente_ Vivete?
Io vi facea tra i morti.
_Geri_ Ah! dammi aita,
Ferma il sangue che spiccia... Ahi questa è piaga,
Che se altra è più mortal, nulla è più acerba.
_Manente_ Gagliardo egli è quest'uomo Vostro![7]
_Geri_ Quindi
Più mi grava di spegnerlo.
_Manente_ A quest'ora
Poco spazio di terra avria sepolto
Il trafitto, il misfatto e la memoria; —
Ma io vel dico, voi — mai sarete un uomo.
La buona spada innanzi al sol combatte,
E dà in petto al nemico; — ma il pugnale
Le tenebre ama e il dosso: — più veloce
Quindi è la via che mena dritto al core.
_Geri_ Vivo; — la sconterà.
_Manente_ Ma intanto il vostro
Sangue per lui tigne la terra...
_Geri_ Vivo.
Breve di pochi dì tremenda vita
Io gli apparecchio, e morte disperata.
ATTO SECONDO.
E sì distretto m'ave in suo disire
Lo core mio, che dallo suo pensare
Un'ora solo io nol porria partire,
DANTE DA MAIANO.
SCENA I.
Sala interna di Damiata. Spunta il giorno.
GUALFREDI _al lume di una lampada legge una nota di proscritti_.
E voi morrete, — Tedici, Lazzarri,
Rossi: già foste amici, or troppo grandi
Siete: — io non v'odio... ma perchè importuni
Ove a posare ho il piè poneste il capo?
Voi perirete. — Lemmo Cancellieri!
Il figlio di mio padre! Il mio fratello![8]
Uno stesso alvo!... un sangue stesso!... il nome!
Di mie vigilie o lampada compagna,
Vinta del sole al mattutino raggio,
Sembri la Vita;... scintilla di eterno
Lume... di vile umor figlia, che splende
Nell'ombre: — sembri il tempo, che misura
I pianti lunghi, il breve gaudio, e scava
Le fosse. — O tempo, o vita, e che mai siete?
D'immota eternità mobili figli,
Tenebra di sepolcro, ombra di morte. —
Ma ed io sarò un eterno? Qui di forma
Muta tutto e non muore. E il mio giudicio?..,
La mano tinta di fraterno sangue
Arderà nell'Inferno... io fratricida...
No, — non sarò.[9] Fratello, vivi, e quando
Ne dovessi esser morto, e a vituperio
Per le vie tratto, e alfin gittato ai fossi, —
Vivi: — ciò tu non sai, ma io ne son lieto.
Dunque vero è che un oprar bello, ov'altro
Manchi conforto, alto a se stesso è premio?
Ma io non posso esser giusto, — non posso.
Nello... Guido!
SCENA II.
NELLO, GUIDO, E DETTO.
_Nello_ Messere.
_Gualfredi_ Il figliuol mio?
_Nello_ Non giunse ancora alle paterne case.
_Gualfredi_ Vagare innanzi dì per la foresta
Forse disio prendevalo?
_Nello_ Messere,
Noi l'aspettammo tutta notte indarno.
_Gualfredi_ Che!... gran Dio! Certo un qualche grave malo
Lo incolse... in qualche perigliosa impresa
Si cacciò male ardito... ahi! forse ei cadde.
Tu perchè pria non mel dicevi? O figlio,
Per darti stato a fiero passo io metto
L'alma e la vita mie, e tal sì acerbo
Tu mi rimerti? — Seguimi.
_Nello_ Pensate.
Ch'ora sia questa a uscir soli: — il nemico
Però non dorme, e il capo vostro ha messo
A prezzo.
_Gualfredi_ Vieni... ch'ove tremi un padre
Pei dì del figlio, non paventa morte...
E già mi è troppo questa vita grave,
Che vedovato strascinar la possa
Del figlio mio....
SCENA III.
GERI, MANENTE, E DETTI.
_Geri_ Vosco sta il figlio...
_Gualfredi_ Oh vista!...
Tu se' ferito... ell'è mortal la piaga?...
Chi t'offendeva?... Guido, il ferro mio...
Tu corri... va per mastro Dino, Nello...
Parla in nome di Dio; chi ti trafisse?
Nello, ma Nello, la mia spada dammi?
_Geri_ Rimanti, — lieve è questa piaga; — Dino
Videla, un tal suo farmaco vi appose.
Sì che ormai n'è la doglia al tutto spenta.
_Gualfredi_ Ma il feritore... il feritor?...
_Geri_ Lo taccio...
_Gualfredi_ Svelalo...
_Geri_ Padre!...
_Gualfredi_ Se il mio amor t'è caro,
Se grave t'è lo sdegno mio, lo svela.
_Geri_ Quanta angoscia di pianto e di vendetta
È per uscirne...
_Gualfredi_ Non ti calga,... il noma.
_Geri_ Egli consorte è nostro...
_Gualfredi_ È Lemmo?
_Geri_ È Dore...
_Gualfredi_ Schiatta iniqua!... vil serpe!... io calpestarti
Potea... nol volli... Maladetto l'uomo.
Che vede il serpe e nol calpesta. — Oh spenti
Siate voi tutti, ribaldi![10] ricada
Il vostro sangue su la vostra testa...
Sali il mio buon destriere, o Nello... sprona
Al mio castello; — trova Uberto; — digli
Che mova tosto, — che tra sesta e nona
Con le masnade armate io qui lo aspetto...
Parti, — vola. — E non se' partito ancora? —
Ora tu dimmi, il fiero caso come
Accadeva?
_Geri_ Poichè disio vi prende
Saper la triste istoria, e a vendicarvi
Siete parato, — io ben volenteroso
La vi dirò. — Con nera opra il codardo,
Ordita in grembo della notte, d'onta
Volea coprirci tal, che da qui innanzi
Senza arrossire non osasse il volto
Alzare un Bianco;... un redivivo... eterno
Portare obbrobrio... una infamia infinita
In casa di Gualfredo Cancellieri...
_Gualfredi_ Onta a Gualfredo!
_Geri_ E svellerti dal seno
Paterno il capo diletto di Bianca...
Spietato!...
_Gualfredi_ A forza?...
_Geri_ Oh! femminil talento
Fievole è cosa, e più che d'ira, degno
di pietà...
_Gualfredi_ Dunque consentia colei?...
_Geri_ Dai ribaldi travolta, con parole
Dolci di pace vinta, ir si lasciava
Semplicetta alle frodi...
_Gualfredi_ E tu?
_Geri_ Li colsi
Al varco, — ruppi il nequitoso fatto. —
Di lieve piaga ebbi la mano offesa.
Ma di profonda il core.
_Gualfredi_ O scellerata
Figlia! Oh disdoro della casa mia!
L'ora tua estrema è suonata... la gente
Dirà a un punto il tuo fallo e la tua pena;
E che Gualfredo tra il delitto pose
E la tua morte quel tempo che vuolsi
A trarre un ferro, e a trapassare un cuore.
SCENA IV.
UN SERVO, E DETTI.
_Servo_ Messere, un uom,
_Gualfredi_ Che vuole?
_Servo_ A grande istanza
Favellarvi...
_Gualfredi_ Che rieda a vespro.
_Servo_ Ei disse,
La sua bisogna oltre ogni pensier grave
Non dare indugio, e dove or non lo udite,
Ei mai più tornerà.
_Gualfredi_ Lo conoscesti?
_Servo_ Io nol conobbi: a grande studio il volto
Col mantel cela.
_Gualfredi_ Or chi fie questo? — venga.
SCENA V.
DORE, E DETTI.
_Dore_ Se Dore Cancellieri...
_Gualfredi_ Iniquo! muori...
_Dore_ Partecipate il retaggio dell'empio:
Un innocente trucidate.
_Gualfredi_ Il tuo
Ferro scaldossi per entro le vene
Del figlio mio, e se' innocente?
_Dore_ Sono:
Alla morte di Dio, lo giuro. — Questo[11]
Mi svelava il misfatto: e per comando
Del padre, solo, senza compagnia,
Con la coscienza che sol mi francheggia
«Sotto l'usbergo del sentirsi pura»
Venni a mercè d'involontario fallo. —
Assalito per l'ombra... a tradimento...
_Geri_ Certo, assalire io ti dovea per l'ombra,
Però che figlie di tenebra sono
Le opre tue bieche... In grembo della notte
Ogni codardo rapace l'artiglio
Dispiega; e tal ti argomentavi Bianca
Menarne, e farci infami...
_Dore_ Ove non foste
Voi mio consorte, e me solo offendeste,
Altra risposta io vi daria che motti.
Ma voi sozzate il vase del Signore,
Sfrondate il giglio di Pistoia, quind'io
Favellerò di queto: e posto ancora
(Guardimi il ciel!) ch'io proponessi cosa
Di lei non degna, avriami ascoltato ella?
Bianca! — creatura che si piacque Dio
Formar perfetta, onde di lui memoria
Rimanesse quaggiù. L'amo, ma di alto.
Di magnanimo amore io l'amo; — e dove
Il ciel compagna la mi desse, ah! suora,
Sposa, madre, per me tutto sarebbe;
L'adorerei sì come cosa sacra,
Nè direi più che questa vita è un pianto,
Una scuola di angosce; ma una via
Sparsa di fior che tra il diletto mena
Alle gioie immortali.
_Geri_ Oh! pria di morte
Sposa che tua sarà...
_Dore_ Geri, mi odiate,
Il so; — pur io non vi offendeva mai.
Membrate un fatto o un detto che in ingiuria
Vostra da me movesse; — A correr giostra
Certo talora, od a ferir torneo
Vi soverchiava; — ed io per me non veggio,
Oltre quest'una, altra cagion dell'odio
Vostro atroce: — se ciò fosse, — sventura
Al dì che appresi a trattare asta e spada!
Sventura al dì che ferir l'uomo io seppi
Con ferita immortal... con la vittoria!...
_Geri_ Tu te ne menti: e quando mai vincesti
Geri tu?...
_Dore_ Mento io? — Queste labbia ignote
Sono a menzogna, perocchè una sede
Eterna ha su le tue. — Sul ver ti punsi;
Ma se di un Cancellier figlio tu sei,
Rammenta i giorni andati, e su la polve
Pensa di quelli cui perpetua impresa
Fu nella vita, ed ultimo sospiro
Nella morte l'Italia, e tu pur anco
Prode sarai; — e nel dì della battaglia
Vedrai l'ombre paterne confortarti; —
Udrai la voce che raddoppia il core,
L'alito sentirai della vittoria. —
Ma per invidia non si sale in fama. —
Dagli stellati seggi nello abisso
Giacque della tenebra chi astiando
Avverso mosse al suo Fattore: — or l'astio
Con Satano accomuna; un giorno ancora
Avrai pena comune...
_Geri_ Ormai più modo
Non ha lo sdegno: — t'accomanda a Dio,
Ch'or sei morto...
_Dore_ Al ferire un uom senz'arme
Ti riconosco...
_Gualfredi_ Vivaddio, t'arresta![12]
Hai morto il senno? — Queste mura senza
Periglio a voi non sono: — andate, — e dite
Al padre che di pace e di perdono
Parole omai correr tra noi non ponno; — Che
non più di una terra il fosso stesso
Può rinserrarci, e nudrirne di un cielo
Medesmo l'aere; — che di noi due, l'uno
Da qui innanzi dee piangere, ed il giorno
Maledire in ch'ei nacque. — Uno sterminio,
Ditegli, in breve, una guerra di morte
Io moverogli contra, ond'ei si guardi
S'egli è vero che il dritto esalta Iddio.
_Geri_ Non fie lieve così lo tuo commiato
Da queste case. —[13] Altra ben'io di vostra
Morte, tra breve, da costoro ordita,
Trarrò vendetta. — Tu sappi per sangue,
Per parole non già, piaga sanarsi;
E l'anima tua... indegna che per questo
Mio pugnale sia sciolta. — A te, Manente,
Sotto pena di cor lo affido.
_Dore_ Forza
Mi fate voi? ben mi aspettava a questo. —
Gualfredo, e il consentite? — Intendo or come
Più che crudo esser frale è maggior danno; —
Ma e bene intendo qual pena, e qual merta
Pietà. — Gualfredo, per qualunque evento
In vostra casa possa incormi, — io prego,
Che conto un dì non vi domandi Dio...
Io vi perdono... or lo sdegnate? — Un giorno
Questa parola, più che prece e pianto,
Misericordia impetrerà...
_Manente_ Nè chierco
Mai sermonò così soave, o frate.
Venite al premio...
_Dore_ La trascorsa notte,
S'io mal non veggo, ti salvai la vita?
_Manente_ Oh! tristo me, ch'io son di mente lassa; —
E questo antico è sì, che omai non merta
Membrarlo.
SCENA VI.
BIANCA E DETTI.
_Bianca_ Empio, che fai! — lo meni a morte?.
Non dà la terra a nudricarti il frutto?
Non il liquore a dissetarti? — Il sangue
Perchè e le membra dell'uomo desii?
Oh! se dischiusi nuovamente i cieli
Piovessero l'oceano della morte,
E lo spirto di Dio fosse su l'acque
Gridando: — Il giusto è salvo; si vedria
L'arca pei mari di virtude in terra
Segno, e di pietà in cielo, — o spenti tutti?
_Manente_ L'arco baleno è un patto a più colori
Che mi toglie il sospetto.
_Bianca_ O padre mio,
Son queste le promesse, i giuri questi.
Che al letto della morte, ove la estrema
Ora vivea la madre mia, faceste?
Desioso di Dio, pur su la soglia
Della vita fermavala un pensiere
Di angoscia; a voi si volse, ed al perdono...
Vi confortò del sangue vostro... e: Vedi,
Disse, Siam polve,... la mercè di Dio
Non fie a lui che visse odiando in terra...
Voi piangevate, chè la pieta il varco
Avea tolto alla voce; allora un lampo
Vestì di gioia il volto alla beata,
Compose il capo alla quïete eterna,
E scosse l'ale al sempiterno riso...
I labbri intanto della morta spoglia
Parea pur sempre dicessero: — pace. —
Spirto beato, dai stellati seggi
Ove sei santo, a questa terra un guardo
Volgi, e vedrai di quale amore il sangue
Si ami dei Cancellieri; — e qual conceda
Pace e perdono il tuo consorte. — Padre...
Pensate che possa giurare invano
L'uomo ai suoi morti?
_Geri_ Or chi fie mai che nieghi
Mastro gentile ai bei concetti amore!
_Bianca_ Amore?
_Geri_ Sì, — forse non ama il nostro
Nemico Bianca?
_Bianca_ Io... del Signor l'amico
Amo; — inimico a nullo, io Dore amo;
Nè tale è questo amor che voglia starsi
Celato, — e al padre, e a te non pur, ma al mondo
Io vorrei dire l'amo. — Oh a quello amore
Guai! che di farsi manifesto adonta,
O già fatto è delitto, o se ne appressa.
_Gualfredi_ E lieti giorni e avventurosi Bianca
Stimi trarre con Dore?
_Bianca_ Avventurosi! —
E chi lieto è quaggiù? — Non è ella prova
Di pianto questa vita?
_Gualfredi_ E qual conforto
Or ti fie dunque averlo a sposo?
_Bianca_ Un fuoco
Che nudrono le vergini in onore
Di Nostra Donna è l'amor mio, — modesto
Sì, ma immortale: — la ragion non vince,
Eppur sento che dove a sposo Dore
Dio mi consenta, io gli dovrò tai grazie,
Quali di suo più grande beneficio...
Ma poichè la ventura a tal ne mena,
Ecco prostesa in voi m'affido io tutta.
Proferite giudicio: od all'amplesso
Tornate il fratel vostro, e fie suggello
Il mio nodo di pace; o consentite
Ch'io al Ciel mi renda. Oh! non già lieve questo
Sarammi; — ma un pensiero mi conforta:
Più che sovra i felici il guardo intende
Sovra gli afflitti Dio.
_Gualfredi_ Sorgi... la mano.
Che stringere desii di sangue è tinta, —
Sangue del fratel tuo. —
_Bianca_ Sangue!... chi il dice?
Ella è innocente...
_Dore_ Io questa mano, il giorno
Delle vendette, francamente a Dio
Per supplicarlo innalzerò; nè traccia
Perenne è questa, perocchè non grido
Di colpa, ma consiglio di natura
Scorse la mano;... e la natura è figlia...
Di Dio.... Mi striscia su le carni un ferro, —
Percuoto nella tenebra... Per quanto
È più nel cielo e in terra sacro, il giuro, —
Sono innocente.
_Bianca_ Cancelliero, il giuro
È mala prova d'innocenza: — il fallo
Al par lo adopra, e più. — Ben ti credo io,
Ma sposa — finchè il mondo non conosca
Te non essere un tristo — ch'io ti sia,
Impossibile è cosa.
_Dore_ In questi luoghi
Volea tenerne il cugin nostro — a forza:
Or volontario rimarrommi; e a voi,
Gualfredo, il carco di chiarir se Dore
Un fellon sia concedo; — e dove tale
Non vi appaia, se voce di consorte
Puote in voi nulla, — priegovi — torniamo
Amici, deponiam l'ire fraterne
E le contese, onde la gente dica:
Ben serba il Cancelliero alma sdegnosa,
Ma volentier perdona....
_Gualfredi_ Benedetta
La pace che da lungo invan sospiro! —
Figli... figli... Or deh, Bianca, alle tue stanze
Riedi; — voi, Dore, nelle mie vi state: —
Dei vostri padri è questa casa, — e vostra;
Ogni timor quindi sbandite. — In breve
Tornerò a voi. — Sappiate intanto ch'ove
Pieni non sieno i desir vostri, certo
Non fie per me che voi non siate lieti.
_Bianca_ Parmi, o benigno il ciel s'inchina?
_Dore_ Il voglia
Iddio, ma non mi affido: — ad ogni evento
Amami.
_Bianca_ In cielo, dopo Dio, te primo. —
_Dore_ Bastami. — Or va, ch'io son parato a tutto.
SCENA VII.
GUALFREDI, GERI.
_Gualfredi_ Non periranno i Cancellieri.[14] — Figlio;
Molte io fin qui sopportai cose in vostro
Danno e mio da voi fatte, e pur di nulla
Tanto mi dolgo quanto di questa una
Che oggi faceste in mia presenza. — Or giovi
Membrarvi, — Dore qui securo starsi
Con la tutela del mio nome, — solo
Esserne signore io; — e da qui innanzi
Senza periglio non poter voi a scherno
Torre la santa autorità paterna... —
L'evento della notte...
_Geri_ Udite cosa
Che ultima vo' che in questo sia. — Gualfredo,
Poichè al mio detto non fidate, e in dubbio
Ponete la mia fe', non dirò verbo
In difesa... io disdegno...
_Gualfredi_ Oh! mal conviensi
Disdegno in ciò, — ma si vorria ben onta
Pria di mal fare. — Or vel ripeto, — sono
Signor supremo io qui. — Voi fate senno
Di mie parole, e pensate allo stato
Cui, se ben veggo, non vi chiama il cielo.
SCENA VIII.
GERI.
Nè a virtù tutto, — nè a delitto tutto: —
Tra il Caino e l'Abele... A me è conteso
Spegnerti o Padre: ora mi chiama il fato
Tuo mal grado a ferire, e strascinarti
Per una via di sangue al mio disegno.
ATTO TERZO.
. . . . . . . . . . . . . I lor tetti
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Quasi spelunca di ladron son fatti
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E tra gli altari, e tra le statue ignude
Ogni impresa crudel par che si tratti.
Deh quanto diversi atti!
Non senza squille si comincia assalto
Che per Dio ringraziar fur poste in alto.
PETRARCA.
SCENA I.
Scena come nel primo Atto. È giorno.
UBERTO, VANNI, UGHETTO, DONATO, BACCIO, ED ALTRI.
_Vanni_ Poichè ne amate come figli, noi
Qual buon padre non men vi amiamo, Uberto:
Quindi è il piè in staffa, ed è la lancia in resta
Al tuo comandamento; che buon dritto,
Ragion, giustizia è a noi tuo cenno, — tutto.
Pur, se ne assenti, a che ne hai tu condotti?
A che venimmo?
_Uberto_ Lo sapete voi?
Certo non io.
_Ughetto_ E fa mestier domanda?
Non ella è aperta nostra sorte? — Amati,
Reveriti, diletti oggi, e percossi
Dimane, — come verga che alla pena
Del figlio il padre innalza, e ov'ei si umili,
Ridivenuto pio questi l'amplesso
Dischiude del perdono, ed è la verga
Tronca gittata a terra.
_Vanni_ O come cane,
Cui per la belva presa toccan'ossa
Sovente e battiture.
_Uberto_ Vanni, duolti
Seguirmi? — rifà i passi, — io non ti tengo;
Ma in ciò pon mente, nulla a perdere hai.
Tua non è quella veste che ti copre,
Tue non sono quell'arme; e appena appena
L'anima è tua.
_Ughetto_ Il non acquisto a noi
Perdita è certa.
_Vanni_ Dunque è destinata
La vita nostra a far siepe ai codardi? —
Nella promessa, ove li prema il danno,
Infiniti: perchè, securi, il prezzo
Non den pagar del sangue? Non si dona
L'anima, ma si vende.
_Donato_ E qual sia angoscia
Sapete, Uberto, allorchè di compagni
Scemi tornando a casa, alle accorrenti
Donne null'altro possiam dir che: — Gemma,
Prega requie allo sposo: — Agella, il padre
Piagni: — e tu, Spina, non vedrai più il figlio.
Sposo... padre... figliuol, son morti.
_Baccio_ E l'onta
Di farsi al tempio, e non potere offrire
Al Signore che preci?
_Vanni_ Arrogi al danno
Lo strazio. Altra fiata i Cancellieri
Chiamârmi, e Guelfi e Santa Chiesa e Papa
Voller ch'io urlassi; — in questa un uom, con voce
Geri additando e con mano, mi dice:
Va, ponlo a morte. — Io lo facea; — quand'ecco
Dore giungermi addosso, e tal di un stocco
Darmi sul capo, che se Dio non era,
E la barbuta nuova, ei mel fessava
Fino al mento.
_Ughetto_ E me pur poneva Geri,
Onde tra l'arme non patisse oltraggio,
(Tale almen disse), a guardia della donna
Del giudice Benozzo, allorchè mosse
Ratto a mia volta con sua gente Lemmo,
E a vitupero mi cacciava. — Io solo
Era; — nè basta incontra a' molti sdegno:
Ritrassi il piè, ma me la cinsi al core.
_Vanni_ Noi siam fratelli d'ingiuria: volete
Essermi di vendetta?
_Ughetto_ Anzi mi è grato:
Mi vi lego per fede.
_Vanni_ Ecco la mano.
_Uberto_ O prodi, o forti, proseguite or via.
Ma al ciel fo voto, che di voi qual parta
Sì dalla insegna, che non oda il cenno
Di mia voce, — saprà che all'arcion posi
Pria di partirmi un capestro, e il contado
Nostro molti nudrire alberi, ed alti.
Per trescare una danza in campo azzurro.
Non ordin fisso, non comando, o voce
Di condottiero, ma furore, e rabbia
Di vendetta, e ingordigia di rapina
Guidanvi a queste guerre. — Per voi stessi
Rotti, un timore di breve ora siete,
E di vostra miseria una perenne
Fonte. — Cacciare voi potete Uberto, —
Trucidarlo anco; — ma finchè le vostre
Voci mi appellan duca, — voi dovete
Obbedirmi...
_Donato_ Egli il ver favella.
_Baccio_ È giusto.
_Ughetto_ Buona milizia è questa.
_Uberto_ E non sono io
Lo padre vostro? e voi non siete i figli
Miei? — la forza mia sola? A me lasciate,
A me il pensier di farvi lieti. Io — nulla
Son senza voi; voi — senza me. Ci stringe
Necessità più salda assai di amore. —
Fidate in me.
_Donato_ Fidiamo in lui.
_Baccio_ Fidiamo
In Uberto.
_Ughetto_ Il buon duca.
_Vanni_ Viva Uberto!
_Tutti_ Viva!
_Uberto_ Ed a voi, qual può maggiori, Uberto
Rende grazie. — Ma Geri i passi affretta
Or ecco qui: tacetevi, e in disparte
Fatevi, che non ama aprire a tanti
La sua mente il signore.
SCENA II.
GERI, MANENTE, E DETTI.
_Geri_ Ben ne venga
Uberto, e ben con esso la masnada. —
Nulla t'incolse al venir tuo molesto?
_Uberto_ Nulla: — al comando di Gualfredo io mossi
Ratto, e se mal non veggo, il suo disire
Parmi ho precorso.
_Geri_ E di ciò grande t'abbi
Mercè. — Ti appella in questi luoghi un alto
Consiglio; — e poichè il padre di altre cure
Gravato or si sta lunge, — io pianamente
Vo' chiarirti di tutto. — A tale impresa
Vuolsi or por mano, in che il periglio scema
A misura del core.
_Uberto_ Ed io parato
Pel piacer vostro sono a tutto.
_Geri_ I Guelfi
Non ti dirò perchè altra volta, e Roma,
Chiamato a tutelar venisti, e come,
Anzi che pro, te ne arrivasse danno:
Perocchè ingrata questa terra tenne
Vostra vita un tributo e il sangue un dritto.
Giova gridare Impero, e i Guelfi adesso
Cacciare in bando.
_Uberto_ Ma che Pisa è un nome
Pensaste mai, — Guelfa Fiorenza, — e starsi
Sul roman seggio Bonifazio ottavo?
_Geri_ Me' si sanno in Pistoia che in suo contado
Queste novelle, Uberto. — I miei consorti
Fatto han com'io di lor gente adunata,
E di amistadi; e se un menar da franchi,
Un assalire alla impensata i nostri
Nimici a cacciar valgono, ella è vinta
Tutta la impresa.
_Uberto_ Io non comprendo.
_Geri_ Lieve
Fieti però quando saprai, Fiorenza
Ordir la trama istessa, non diversa
Argomentare Lucca, e a questa volta
Venir con mille cavalier tedeschi
Dell'imperio il Vicario: — il modo poi
Di correr la città non anco è fisso;
Quando fie tempo lo saprai. — L'impresa
Questa è, — perigli questi: — or vo' che il premio
Sappi — di patria non dirò, — di amici
Meno, — e non pur della romana soma...
Motti vani, novelle da contarsi
Dal querceto alla rupe. — Un più securo
Consiglio or teco valgami, che al core
Ti giunga dritto.
_Uberto_ Ed è?
_Geri_ Lo tuo pro istesso:
Però che farai tue le ricche spoglie
Degli usciti, e i tenèri; e dove prima
Errante masnadiere alla campagna,
Or tolto al soldo del Comune avrai
Stanza e vita secure.
_Uberto_ Oltre il diletto
Di farvi cosa che vi aggradi, voce
Per me non suona sì soave, quanto
Cangiar fortuna, come quei che traggo
Dura vita, non certa del dimane,
Ed appena dell'oggi.
_Geri_ Or ben precorri
Il premio tuo con la speranza. — In modo
Vo' far che ti dirai contento.
_Uberto_ Geri!...
Poichè in periglio vita io pongo certa,
Parmi, securo in ugual modo il premio
Dovrebbe essere, e certo.
_Geri_ Uberto!... il senno
Vienti meno? — Ti chiamo nella terra,
I miei ti affido, e me. — Signor di tutto,
Securtà chiedi?
_Uberto_ Che non sia dell'altre
La mia testa più alta, — amo; — starmi
Sublime senza scala, — temo; — e soglio
Senza guatarla attraverso lo raggio
Vuotar la tazza. M'intendete?
_Geri_ Intendo.
Se savio sei, ti guarda.
_Uberto_ Dal nemico
Mi guardo, — perocchè quando ei più presso
A me verrà, che non la spada ho lunga,
Freddo sarò; ma dalla man che blanda
Par che si accosti a carezzarti il mento,
E ti rompe la gola, chi ti guarda?
_Geri_ Tanta astrattezza ricercar che giova?
Noi non concerne: — il mio fedel tu sei, —
Dovizioso per me; — dove fatto
Tale, non fora ch'io ti muti certo
Con nuovo impronto, che di te men valga.
_Uberto_ Sia. Ogni uom suo sentier corre; io corro il mio,
Pensando che sul letto della morte
Alto conforto pel tradito è questo,
Ch'ei può legar la sua vendetta. — Geri,
Son vostro.
_Geri_ Va, — nelle terrene stanze
Tacito statti del castello; — all'uopo
Quanto fia troverai. — Lo duca vostro
Seguite voi silenziosi, come
Sorprendete il viandante alla foresta. —
Tu gli conforta a bene oprar la spada.
_Uberto_ L'hanno tutti a due tagli.
SCENA III.
GERI, MANENTE.
_Geri_ Ei vuol morire.
Poca per celar sapienza, e ingegno
Per conoscere ha troppo. Or tu ben nota,
Manente; al terzo grido per lo Imperio
Pon fine alla bisogna; — e tal ti adopra,
Che al colpo primo la si spacci: — in modo
Farò che Bianca non si opponga.
_Manente_ Questo,
Vel dissi io già, non lo raddoppia mai.
_Geri_ Una volta mancasti. — Altrove io corro
A vegliare. Ricorda... al terzo ei...
_Manente_ Cada.
SCENA IV.
MANENTE.
Facciamo i conti. — Mi torna ch'ei cada? —
Debbo esser tristo traditore, o tristo
Fedele? — Tristo sempre! — Parmi il meglio
Torre il bel vanto di restar fedele...
Ecco come s'accoppia al maleficio
Virtude, e come ogni uom può dirsi onesto.
SCENA V.
BIANCA.
Di arme un suono qui intesi. — Ah! m'ingannai. —
Se come scellerata io son punita
A inaridirmi nel sospetto, questa
Innocenza che giovami? — Versato
Fu il sangue qui del mio fratello... O terra,
Dal dì che l'empio diffuse la prima
Morte sul volto all'uomo, tu bevesti
Più sangue che rugiada; eppur vestita
Di luce, — eterna in tua beltà sorridi,
E pietosa raccogli entro al tuo grembo
E i giusti e i tristi — tutti! — È la tua faccia
Cener di morte: — calpestiam la polve
Dei padri noi, — calpesteranno i figli
La nostra... O terra, una gran tomba sei!
Non pertanto sorridi... Oh! quanto meglio
Era non esser nati. — Ecco il vestigio...
Dio già lo vide... Oh! a te non sorga il grido
Di vendetta da questo... e s'ei surgesse...
Non ascoltarlo, — no, — rimanga inulto; —
Fu sparso senza offesa: — ma nol vegga
La gente... deh! nol vegga... Oh! se uomo mai,
Questo luogo accennando, e altrove il volto
Per orrore volgendo: — Un Cancelliero, —
Dicesse, — là trafisse un Cancelliero, —
Oh I quanta infamia: — celisi, — nol vegga
La gente, — deh! nol vegga.[15]
SCENA VI.
LEMMO, E DETTA.
_Lemmo_ Perchè quello
Che in pensando il tuo cor freme, — in altrui
Vuoi sospettar? — Questo non è nè giusto
Nè onesto; e il nome nostro delle genti
All'orecchio fin qui non suonò infamia.
L'anima sconfortata nel dolore
Non ode l'argomento della mente,
Nè palpito paterno ragion vince! —
O auguste mura dei miei padri, — un giorno
Men superbe sorgevate, ma certo
Di tutela ospital, di cortesia
Vi riparava il perseguito, — certo
Delle oneste accoglienze il cavaliero; —
Come della innocenza e del valore
Al sacro asilo tutti. — Men superbe
Sorgevate: — ma or son del signor vostro
Le notti tutte quiete? — Il pianeta
Vi schiara sì; — ma non v'allegra; — cade
Suo raggio sopra voi, come su l'arca
Del potente defunto. — O patria mia!
Da quei muri esce un grido di minaccia;
Però che guai alla terra ove castello
Tal'erge il cittadin che può oppressarla:
Guai! In breve, o il suo signor fia per te spento,
Od ei ti fie tiranno. Insomma questo
Dee pur finire in pianto... — Or parmi, e certo
Scorgo una giovanetta in alcun'opra
Intesa tutta: — oh! se della famiglia
Di colui fosse cui nomar non oso.
Fratello, — a lei chieder potria di Dore... —
Gentil donzella, se benigno il cielo...
_Bianca_ Gran Dio! qual voce è questa! Lemmo!...
_Lemmo_ Tanto
Nei miei consorti può l'odio, che desti
La mia voce terrore?
_Bianca_ Amor la voce
Vostra, ed amor dolcissimo risuona
Su l'anima di Bianca.
_Lemmo_ Tralignato
Non è il buon seme di colei che madre
A te, ed a me dolce cognata, or siede
Su in ciel santa. Or deh! dimmi: — il figliuol mio?
_Bianca_ Degli avi suoi nella casa securo
Vive. —
_Lemmo_ Se come bella sei cortese,
Non l'odii tu?
_Bianca_ Odiare io Dore!
_Lemmo_ Arrossi? —
Tanto ti grava un pensiere di pace,
Che a diffonderti valga su pel volto
Il colore dell'onta?
_Bianca_ Ahi! duro detto.
_Lemmo_ Gemi? Ah! tu ben per tempo sei nudrita
Nella scuola dell'ira. — Ah! ben per tempo
Sai esultar nella gioia di futura
Vendetta, e dolce un retaggio esser l'odio,
Che dee di figlio in figlio tramandarsi.
Pur chi il diria? così cortese sembri...
M'ingannai...
_Bianca_ V'ingannaste... il figliuol vostro...
Io amo...
_Lemmo_ L'ami? ma tuo padre... l'odia...
_Bianca_ Io gliel svelava...
_Lemmo_ Ne fremeva il figlio
Di mio padre?
_Bianca_ Il fratel vostro?[16] — Vermiglia
Fu questa terra del sangue di Geri; —
Or non è traccia: — tal dalla sdegnosa
Anima sparve l'ira... perchè Dore
È un innocente.
_Lemmo_ Gioventù feroce! —
E a te grazie, o leggiadra giovanetta.
Che sì pietosa al genitor favelli
Del figliuol suo. — Di', non aborre dunque
Gualfredo Dore?
_Bianca_ Ei ci nomava figli. —
_Lemmo_ Figli!
_Bianca_ E già mosse per alcun consorto,
Onde lieto messaggio a te portasse
Parola di amistà.
_Lemmo_ Cara! non sai
Quanta gioia nell'anima mi versi!
E io dirtela non so; perchè — profonda, —
Inesprimibile è. — Signor, mercede!
Hai veduto lo spirto contristato
Nell'angoscia di morte, e n'hai sentito
Pietà; — non vuoi che nel sepolcro scenda
Affranto nell'affanno il servo tuo.
Or tu, diletta, al mio fratello vola;
Digli che un cuore nel pensier dell'odio
Inaridito spandersi sospira
Per lo suo affetto intero: — un labro, amaro
Finor per ira, ansa cambiare il bacio
Di amistà sul suo labro; — e le mie braccia,
Digli che mai fur giunte alla preghiera
Dal dì che più gli si gittaro al collo
Come pegno di amor. — Va... vola... parla
Quello che vuoi, nè posso dirti io tutto.
Chè al fervido sentir dell'alma è manca
Favella umana; ma secreto un senso
Prepotente e misteriosa fibra
Dette il cielo ai gentili. Or dunque digli
Quel che sentisti, non quel ch'io ti dissi.
_Bianca_ Spirto non mosse mai sì lieto l'ale
Verso del suo fattor, com'io del padre
Ora al cospetto.... Quella via men lunga[17]
Percorrerò.
_Lemmo_ Verso la piazza io muovo
Del castello; — colà se mia venuta
Tuo padre assente... a dirmi vieni, o manda;
Nè già ti prego io ratto; — chè qual spina
Sia l'incertezza più che dirtela io,
Potrai sentirla tu.
SCENA VII.
LEMMO.
Questa è ben gioia!...
Ma è figlia del travaglio. — Nel dolore
Si nasce,... nel dolor si muore,... e l'ora
Tra il nascimento e la morte è un dolore...
S'ei tace, — godi... — in altro modo lieto
Esser non puoi quaggiù. — Oh! non è questa
La patria nostra... non è questa... In cielo,
Al cospetto di Dio è vera gioia.
ATTO QUARTO.
Però bestemmio in prima la natura
E la fortuna con chi ne ha potere,
Di farmi sì dolere;
E tocchi a chi si vuol, ch'io non ho cura;
Che tanto è il mio dolore, e la mia rabbia,
Ch'io non posso aver peggio di ch'io m'abbia.
FAZIO DEGLI UBERTI.
SCENA I.
Scena come nel secondo Atto. È giorno.
BIANCA.
Triste un silenzio di morte qui regna.
Qual fora mai cominciamento all'odio
Se tal cominci, o amore? — Il padre or come
Trovare io posso? — inoltrarmi non oso.
SCENA II.
GERI, E DETTA.
_Geri_ Bianca, che cerchi?
_Bianca_ Il padre.
_Geri_ O Dore?
_Bianca_ Il padre.
Ma fie a me sempre, così piacque al cielo,
Di Dore il volto un gaudio, perchè volto
È d'uom giusto...
_Geri_ Dal mio diverso tanto?
_Bianca_ La lode al buono è vitupero al tristo...
Tal ti se' fatto, che ti giunga amara
Del cugin tuo la lode?
_Geri_ Io! — no... ma il padre,
Dimmi, a che cerchi?
_Bianca_ Il fratel suo mi manda
A chiedergli se fie sua vita salva
Nella casa paterna...
_Geri_ Oh! ben ne venga
Lo dolce zio! — Riedi per esso; — digli
Gualfredo testè giunto, alto aver mosso
Lamento, onde nè in casa mai nè in via
Gli occorresse; — ch'ei venga; — nè per ratto
Muoversi farà mai che il gran desire
Ne' suoi consorti di abbracciarlo agguagli.
_Bianca_ Vado.
_Geri_ Bianca, — la suora di tua madre,
A Dio sacrata, di ferventi preci
Empie e di pianto la romita cella;
Or dirle cessi il lamentare, e Dio
Avere inteso il suo sospiro; — insomma
La nostra gioia dirle — non saria,
Bianca, pietade?
_Bianca_ Io ben pensava a questo,
Fratello; — ma deh! pregoti, di pompa
Abbian mie nozze nulla, di terreno
Nulla... tutto di Dio... Dei convitati
Parco il numero; — all'anima che intera
Nell'amor si abbandona ei son di freno
Insoffribile; — caste nell'ornato,
Dovizia abbian di affetti.
_Geri_ È tuo disire
Legge. — Or va; — ma perchè ristai pensosa?
_Bianca_ Fratel!...
_Geri_ Sorella!...
_Bianca_ Il priego di una afflitta
Puote in te nulla?
_Geri_ Onde mertar sì fatta
Domanda che fec'io?
_Bianca_ Parla sincero...
L'anima tua veracemente l'ira
Depose?
_Geri_ Il lieve dolore del corpo
Rimase spento dal gaudio dell'alma: —
Ella è serena — come ciel d'Italia.
_Bianca_ I canti delle vergini la lode
Esaltino del pio, dell'uom potente,
Che offeso perdonò; sol questo è calle
Per cui la polve fino a Dio s'innalza.
Il ciel cortese di pietosa donna
Ti sia, e di figli onore ai tuoi verdi anni.
Conforto ai tardi, — a tutti gaudio... Addio.
SCENA III.
GERI.
Dove mai questo cor toccar potesse
Gemito di pietà... tu mi faresti
Piangere...
SCENA IV.
GUALFREDI, E DETTO.
_Gualfredi_ Or dove mai Dore si asconde?
_Geri_ Testè a diporto pel giardino errante
Lo vidi.
_Gualfredi_ Fate ch'ei qui venga.
_Geri_ Padre...
Il fratel vostro...
_Gualfredi_ Lemmo!
_Geri_ È in queste case. —
_Gualfredi_ Che fa? perchè non viene? Andate, solo
Convenire amo con esso.
SCENA V.
GUALFREDI, LEMMO.
_Gualfredi_ A che stai?
Fratel, non osi? — temi? — In questa casa
Pensa che visse il padre tuo, — fratello...
_Lemmo_ Oh nome! — quanto mai fur queste orecchia
A non lo udire; — egli nasconde un suono
Che di amoroso brivido mi scuote. —
Deh! torna a dirmi, o mio fratel... fratello.
_Gualfredi_ Fratel mio dolce, — fin dagli anni primi,
Più che le dotte carte, a me la spada
Piacque, la scienza a te; pur mai dai nostri
Labbri volò l'oltraggio. — Un mal consiglio
Ci divise, — pur mai nemici fummo.
Indurarci la mente al ciel non piacque:
Ella era amica, ma taceva; — i figli
Non ci videro il cor che in suo secreto
Forte piangeva la perduta pace. —
Ei crebbero nell'ira; — essi son rei
Di nostre colpe; — seminammo l'odio, —
Raccogliamo il misfatto.
_Lemmo_ Il ver pur troppo
Parli. — Oh! se mai lo malo esempio il padre
Della colpa, che poi rampogna al figlio,
Avesse offerto, di gran pianto franca
Saria la stirpe umana; ma di polve
Figli, — dannati al male, — non ci è dato
Schifar, ma solo riparare al fallo.
_Gualfredi_ E si ripari. — Il fato che gli eventi
Regge, senza cercarla, offre una via
Soave, un laccio d'oro, onde torniamo
Amici nell'amor dei nostri figli.
_Lemmo_ Se eterno di quest'anima sospiro
La pace sia, fratel comprendi. Tale
Mi fai proposta, che volendo ancora
Ricusar non potrei. — Anch'io talvolta
Magnanimo mi credo; or veggo a prova
Che tu vinci d'assai. Regale stato
Non ho da offrire, e tu nol speri, a Bianca;
Ma un viver mite, quale ad uom privato
Conviene e a cittadino.
_Gualfredi_ A me di farle
Stato la cura lascia; — in ciò lo ingegno
Adoprerò e la spada.
_Lemmo_ Oh! dunque il tempo
A più mite consiglio non ti volse? —
Perchè di Dio la creatura intendi
Contristar nel servaggio? — A che mai questa
Tra le nequizie dell'uomo infinite
Ultima, e la più cruda? — In ben ti torna? —
Sale il tiranno e muore, e le insultanti
Strida, e il riso feroce dell'oppresso
Lo disperano al letto della morte:
Suo scettro è fuoco che la man che il serra
Arde, dannata per giudicio eterno
Alla viltà di non lasciarlo. Il giorno
Temi delle vendette. Iddio soverchia
Chi sta sopra la legge, e la tremenda
Ira di pazienza offesa.
_Gualfredi_ Onesta
È tua ragione, come di uom che i casi
Della vita, raccolto entro sua cella,
Specola. — Ma cosa è questo vantato
Viver libero che serbar non sanno
Omai, nè ponno? — A chi la coglie è gemma
Per via gittata; ed io che possa assembro,
E senno deggio far che in man non cada
Di chi in mal la converta. Di Dio poi
Nè io, nè tu sappiamo nulla; e speme
Ch'ei non abbia mal grado invece accolgo
Di surrogare un vivere civile
A sanguinente libertà. — La spada.
Io tel ridico, a ogni altro basta.
_Lemmo_ Sali
Tu dunque; — opprimi, e sali. — Io per me, quando
La fiumana trabocca e mena in volta
Dei tapini la vita, ed a frenarla
Non valgo, sto sopra la riva e piango,
Nè sulla libra dell'ira di Dio
Dei miei delitti pongo il peso. — Oh! pera
Il nome, asconda il corpo e la memoria
La terra del sepolcro, ma non viva
Scritta di sangue per la storia; — il pianto
Non la rammenti: ore alla gloria è chiusa
Lodevol via, basti alla polve umana
Di uno amico la lagrima o di un figlio
Al gran tragitto dal tempo all'eterno...
_Gualfredi_ Credimi, Lemmo, è tal nostra natura.
Che il ferro stesso che al suo mal la stringe
Vuolsi a condurla al bene.
_Lemmo_ Ad ogni costo
Salir tu vuoi; — ma pensa ch'uom non sorge
Senza mozzare molti capi in terra
Ov'ei fu cittadino; — e quando al sommo
Verrai, in che fie di un secol pianto un detto
Tuo solo, — pensa, il buon voler non basta;
Erra la mente, e si trascorre al male.
_Gualfredi_ Ma e ch'egli è mai questo uomo, onde tu tanto
Ti travagli per esso? Ah! mal conosci
Di queste sedi la stirpe esecrata. —
Virtù maligna dalle stelle piove
Che il cuor dell'uomo indura e lo fa tristo. —
Anch'io nei primi giorni della vita,
Quando i sogni son di Angioli, e la mano
L'agnello e il serpe palpa, e il labro ride
Al fior della bellezza, e al fior de' morti,
Alla cicuta e alla rosa, — uno amico
Vagheggiava pur io sopra ogni volto.
Stolto! e credei che l'anima, non altri,
Informasse le voci. — Ahi! che ben presto
Conobbi a dura prova unirci l'odio. —
Fa al figlio il padre scontare il delitto
Di averlo ingenerato; — fa l'amico
Scontare amaro all'amico il delitto
Di aver posto in lui fede; — l'uomo all'uomo
Eterna è guerra; — in chi la scure teme,
O Dio, non è di sangue, ma di frode. —
Guai! se il timor di Dio cessasse; — guai!
Se della scure il timore: — avventarsi
Tu vedresti l'un l'altro, — trucidarsi. —
Ma vivi lascia la strage di tutti
Sol due: — si scorgono, — l'odio rattiene
L'anima che fuggiva, — egri, — carponi
Strascinansi; — son presso, — alzan la mano
Per percuotersi entrambi, — a mezzo l'atto
Tronca la morte, — spirano. La tomba
Gli uomini in pace unisce sola.
_Lemmo_ E verga
Del Signor fatti: egli è temuto Dio,
Ma è maladetto il fulmine. — Ah! non spenta
È virtù; — vive questa via di stelle;
Questa nei piani di Betuelle apparsa
Mistica scala, che alla terra il cielo
Aggiunge, — vive: — vedi dalle mura
Diroccate, dal suol sparso di sale
Della regia Milano assorge cinto
Di aureola immortal l'Italo genio: —
Vedi fuggire i Federighi, e in altre
Portar terre la rabbia di mal spenta
Fame, e il furore di un orgoglio oppresso. —
Vili fummo divisi, — uniti, invitti.
Natura invan co' monti e con le nevi
Ci difende; non v'è figlio d'Italia
Che accorra all'Alpi. — Lo straniero scende
A suo grand'agio; — averi toglie e vite,
E ci deride. — patria mia, ti strigni
Con Fiorenza, e con lei Milano; — o stati
Di poche spanne, in battagliarvi eterni
Che fate voi? — un regio manto in brani
Siete... V'unite, e surgeran più belle
Le itale glorie che non fur mai morte;
Però che il sole e la virtude spenti
Fieno a un punto in Italia.
_Gualfredi_ L'amistanza
Che sia del forte non intendi; — meglio
Servaggio intero, — meglio morte. — Il petto
Nostro, se perir dessi, oh!... per altrui
S'apra: per noi non già. Ma se t'è dato,
Con l'ala del pensier sorgi tant'alto
Che al baleno dell'occhio il mondo tutto
Scorga, ed i piani del passato. — Vedi,
Questa è vicenda di bene e di male;
Ma gemesi mille anni nel dolore
Per un lampo di gioia, e per la notte
Vagasi in traccia un secolo di un punto
Luminoso che appresso ha falsa luce. —
Son tenebre per tenebre: — che giova
Travagliarci? soffrire è la condanna
Dell'uomo. Or se fortuna dagli oppressi
Mi scevra, — accetto: — un più vetusto patto
Ho con natura; di fuggire il danno.
_Lemmo_[18] Cielo d'Italia, perchè non ti anneri.
Poichè la gente che il tuo azzurro allegra
Tanto è diversa? A che mai sorgi, o Sole?
Qui non contempli più le ardue battaglie
Che illuminavi un dì... qui non le geste.
Qui non tombe di eroi; — ma colpe e sangue.
O campi, o selve d'orror sacro piene,
Copritevi di lutto; — il vostro aspetto
Ridente mi contrista; — echi educati
Agl'inni dell'onore, or vi ammutite.
Qui non suona che gemito; sia nero
Il manto della bara, — oscuro: — insulto
È qui letizia; — è un oltraggio il sorriso.
SCENA VI.
GERI, MANENTE, GUIDO, NELLO, E DETTI.
_Geri_ Pace, — una volta — pace; — è breve il varco
Dall'ira all'odio, e or qui spirar dee amore.
_Lemmo_ Falli, Geri; non è suon d'ira il mio,
Ma di pietà...
_Gualfredi_ Per altri serba, Lemmo,
Codesta tua pietà; per me saria
Non sopportabil peso. — Esser temuto
Io voglio, — non compianto.
_Lemmo_ Odi, Gualfredo,
Cosa che in mente riporrai. — Son pochi
In questa terra i buoni, — i tristi molti; —
Agevol quindi è assuggettarla. — Capo
Di parte avversa a te mi dice il grido,
Ma nè anco potendo io ti sarei
Nemico, chè uomo esser di sangue aborro,
E tu mi se' fratello. — Uccidi e vinci. —
Forse tepido il sole al fiore stretto
Per gelo tornerà; — forse la scarsa
Scintilla fie che un dì riviva in fiamma. —
Quel che per colpa dei padri perdemmo
Racquisteranno con virtude i figli;
Così giova sperare. — Ai miei castelli
Mi ritrarrò.
_Gualfredi_ Dove il piacer ti mena
Ti scorti il cielo; e quando mai consiglio
Mutassi, — come il cor, teco diviso
Sarà l'imperio mio.
_Lemmo_ No, — abbilo tutto,
E l'abbominio....
_Geri_ Ora a men triste cose
S'intenda. — Volga fortuna la ruota,
E il villano sua marra. — Or dite, Lemmo,
Berrete voi per la salvezza nostra
Una coppa? Fia dessa in che bevea
Lo padre vostro.
_Lemmo_ E perchè di sua casa
Non berrà Lemmo alla salvezza? — Oh! viva
Mille anni, — viva e gloriosa sempre...
Ma e il mio figlio vi sia...
_Geri_[19] Porgi la coppa.
Prendi...[20]
_Lemmo_ Ma... e Dore?
_Geri_ Or vi sarà...
_Lemmo_ Gualfredo!
Sovvienti come il padre nostro — (il cielo
Faccia pace a quell'anima) i bei fregi
Di questa coppa scorrere godeva
A parte a parte, e mostrarne il fin niello:
Quindi additava l'arme: — ecco il lione,
Dicea, rampante, ecco la immagin nostra,
Sdegnosi e grandi. — O figli miei, lioni
Siatevi sempre, — e non mai volpi.
_Geri_ Bevi.
_Lemmo_ Bevo. — Cortese il ciel vi sia... Ma questo
È sangue!
_Geri_ E t'abbi entro quel sangue il figlio...
_Lemmo_ Tu... Dore hai morto?... Dio eterno!
_Gualfredi_ Oh misfatto![21]
_Lemmo_ Dov'è il mio figlio, scellerato? il figlio
Rendimi... Ah! tu non lo uccidesti? — Cessa
Dal triste giuoco; — egli feroce è troppo: — Le
mie paterne viscere dirompe; —
Io sopportar noi posso. — O Geri, in nome
Di Dio chiamami il figlio...
_Geri_ Il suono indarno
Le sue orecchie percuote... ei non lo intende; —
Perocchè dorme...
_Lemmo_ Oh! — s'ei riposa... statti.
Forte lo udii nelle trascorse notti
Travagliarsi nei sonni... A lui mi guida
Tacitamente; — ch'io lo vegga, lascia: —
Vedere un figlio al genitor chi nega?
_Geri_ Vieni, — lo vedi, — e mori.
_Gualfredi_[22] Scellerato!
Se il giudicio di Dio non mi tenesse...
Io parricida... — A te che dir mai posso,
Caro infelice?... maladetto l'uomo
Che confida nell'uomo... entrambi fummo
Traditi. — Oh! non confondermi nell'ira
Co' rei: — deh! nel pregar da Dio vendetta,
Non maledirmi; — del misfatto questa
Ben è la casa, — ma innocente io sono.
_Lemmo_ Sii benedetto... ma mi rendi il figlio...
Le mie castella vuoi? — l'abbi. — Di patria
Fuori desii che ramingando io vada? —
Andrò. — Ma deh! fratel mio dolce, — Dore
Rendimi, — Dore... solo...
_Gualfredi_ Ah! s'io potessi
Renderti il figlio, — sallo il ciel se a prezzo
Del sangue mio lo ti rendessi. — O servi,
Da questo infame luogo il rimovete...
Infortunato! — in te l'angoscia ha spento
La luce della mente...
_Lemmo_ Chi mi strappa
A forza? — o Dore, il padre aita. — Fuggi,
O ch'ei ti ucciderà... possente ha braccio
Siccome bello ha il core: — eccolo! — Vieni;
Beami nel tuo amplesso. — Ahimè! disparve;
Ei sotterra disparve. — Occhi miei tristi,[23]
Spegnetevi, dacchè veder v'è tolto
Il figliuolo nostro.
_Gualfredi_ O deh! non farlo, misero![24]
Solo, — come da fulmine percosso
Di Dio merti le lagrime; — da questo
Terreno affanno una pietà profonda
Ben tosto ai gaudi dell'eterna vita
Ti avvierà: — piagni, ma spera; — il cielo
Me poi condanna al pianto, e alla paura.
Vedi, uom di sangue, la bell'opra? —[25]Godi.
_Lemmo_ Io ebbi amici, e non son più! — consorte
Io m'ebbi, e non è più! — aveva un figlio,
E non è più! — Ramingo... disperato
Come Caino, e non ho colpa. — Dio,
Perchè col peso del tuo sdegno aggravi
Uno innocente?
SCENA VII.
GUALFREDI, GERI, MANENTE.
_Gualfredi_ Il giorno in che la donna
Dal materno alvo accolseti, e a me volta
Disse: — Gualfredo, avete un figlio, — giorno
Fu di dolore a Dio, e di tremenda
Gioia a Satano.
_Geri_ E porpora più vaga
Al mondo fu di quella tinta in sangue
Di un odiato? — E quale ebbe Fiorenza
Vivo colore che al paraggio valga
Di quel che scorre per entro le vene
Di un nemico?...
SCENA VIII.
NELLO, E DETTI.
_Nello_ Gualfredo! — a rumor mossa
È la terra, — qui piegano aspramente
Feriti i Bianchi: — per Dio! sorti...
_Gualfredi_ Oh! tutti[26]
Si trafiggano, — tutti; — e il corpo mio
Faccia coperchio alla universa tomba.
SCENA IX.
GUIDO, E DETTI.
_Guido_ Damiata è cinta: — ognun di voi domanda,
Messere, e traditor vi appella.
_Gualfredi_ Il tristo.
Buon tempo egli è che pei sembianti appresi
Starsi, — non per le cose. — Il nome è nulla, — E
E poichè infame io non la temo... guardo
Fiso la morte, e alla morte sorrido.
SCENA X.
ALTRO SERVO, E DETTI.
_Servo_ Messer... la porta scassinata... a terra
Cadde. — Lazzarri, il fier nemico vostro.
Porta un capestro, e di appiccarvi grida
Al balcon del castello.
_Gualfredi_ Oh! nequitosa
Plebe! — me appeso! — me d'infame morte
Ucciso! — Ov'è una spada? — Or proverai
Che sia destar lion quando si posa. —
Io niuno stringo; — seguami chi vuole...
Qualche bel colpo or la mia morte onori.
SCENA XI.
GERI, MANENTE.
_Geri_ Inferocisti alfine! — Or corri ratto
Manente a Uberto: — per la minor porta
Esca, — furtivo i Neri a tergo assalga. —
Io finch'ei giunga terrò fermo: — vola, —
Pensa qui andarne di morte o di vita.
ATTO QUINTO.
Innamorata se ne va piangendo
Fuora di questa vita
La sconsolata, che la caccia Amore.
Ella si muove sì dolendo,
Che anzi la sua partita
L'ascolta con pietade il suo Fattore.
DANTE ALIGHIERI.
SCENA I.
Facciata di una Chiesa intorno alla quale stanno le arche de'
Cancellieri. È sera.
BIANCA.
Grato ufficio compiei. — Trovai l'angoscia,
Ho lasciato il contento... Oh! di qual puro
Gaudio brillò! dei Santi gaudio egli era. —
Quanti pochi deliziarsi sanno
Nel gaudio altrui! Povera zia! di gioia
Ben era tempo. — Tu piangesti tanto!
Altro, e più mesto ufficio avanza. — In questa
Tenebra, chi mai la diletta tomba
Additerammi? — Il core. — Eccola... è dessa. —
Polve che dentro di quest'arca stai,
Di tal che fu tua figlia odi la prece: —
I baci miei del marmo che ti fascia
Temprino il freddo e ti riscalda. — Sorga
Qualche scintilla dell'antico amore...
Non risponde che l'eco. — E qual del cielo
Parte ti accoglie, o madre, che non m'odi?
Forse ti specchi in Dio, e nel suo ardente
Riso ti fai beata? — Oh! a questa valle
Volgi il guardo, e vedrai cosa che in cielo
Anco ti fie diletta. — Ah! noi raminghi
Di Eden condanna allo sapere al pianto; —
Forse più che non temo a me si appresta
Di travaglio... — A soffrire ti apparecchia...
Meditiamo la morte...[27]
SCENA II.
DUE UOMINI CHE PORTANO UNA BARA.
_1º Uomo_ A quel superbo
Che per meglio punire il cielo innalza
Piegan tutti, non io. — Ti aborro, o vile
Idol di creta.
_2º Uomo_ Alto corriam periglio...
_1º Uomo_ Pari al piacer di dire allo infelice
Padre: — piagnete qui; — qui dentro è il corpo
Del figlio vostro. — Senza croce, — a lume
Spento, volea ch'io lo gittassi a' cani. —
Ma tu pria che a congiungerti alla terra
Ritorni, — oscuro sì ma pur sincero
Avrai, misero, il pianto.
_2º Uomo_ Infortunato!
Dei begli anni sul fior tolto alla vita
Chi mai lo avrebbe detto? — Sì cortese.
Sì costumato egli era.
_1º Uomo_ Amico! il core
Come per morte di un mio stesso figlio
Ho sanguinente.
_2º Uomo_ Sua dimora ha tolto
Fra Lotteringo in questo monastero;
Andianne a lui, e lo preghiam che venga
Di acqua aspergerlo santa, e dei defunti
Dirgli la prece pria che in tomba ei scenda.
_1º Uomo_ O buon Gaudente, qual sarà il cor tuo
All'atroce novella? Indarno pace
Bramasti; ch'ella in questa terra frutta,
Della scienza nuovo arbore, la morte.
_2º Uomo_ Esaudisci, Signor, la mia preghiera;
Questo spirto raccogli sotto il manto
Di tua misericordia.
_1º Uomo_ Così sia.
Requie eterna concedi a lui, Signore.[28]
SCENA III.
BIANCA.
Esser pareami in cielo... Or dove sono?
Misera me! oltre il dovere assente
Stetti; — al castello di tornare è tempo. —
Polve diletta, che secondo spiro
Per avviarmi a lieto porto sei,
Vale: — estremo a involarti nella notte,
Primo a spuntare sul mattino, — dolce
Pensiero e caro. O santa madre mia,
Volgi talvolta un guardo di conforto
Alla figlia nella ora che frappone
Ai nostri amplessi desiati il tempo.
Ma alcun qui mosse: — già non v'era dianzi
Quella torcia! — Che fia? — Cristo! un feretro!
Ahi! come tremo io forte... Il tristo trema
All'aspetto dei morti, o Bianca; — tutti
Saran com'esso, e tu... Or chi fie questo
Che come maladetto senza prece
È portato alla fossa? — Ove a te ogni altra
Manchi, — infelice! — avrai la mia: — ma in volto
Io vo' vederti. — Ah mi si strigne il core;
Nol far... Me preme una secreta forza.[29]
Dore... Gran Dio! l'anima stanca acco...gli.[30]
SCENA IV.
GUALFREDI, GERI, MANENTE, UBERTO E SUA MASNADA, ED ALTRI PARTIGIANI.
_Partigiani_ Vivano i Bianchi!
_Altri_ Viva!
_Al Al tempio.
_Tutti_ Al tempio.
_Gualfredi_[31] Da questa plebe che aborro travolto,
Mi accosto al tempio tremando e sperando
Che se reietti, non saranno almeno
Esecrati i miei voti... Scellerato!...
Come l'osate voi?...
_Geri_ Ogni uom si stringe
Dove gli torna la cintura. — Ogni uomo
Provegga alla sua anima. — Volete
Che io batta al tempio?
_Gualfredi_ Scostati, demonio...
Dio non s'insulta... Io batterò...
_Geri_ Battete.
SCENA V.
FRA LOTTERINGO DAL TEMPIO, E DETTI.
_Lotterin._ Chi percuote alle porte? — Che si vuole
Dalla casa di Dio? — Chi se'? — Gualfredo!
Esecrata dell'empio è la preghiera;
Dio la disperde irato, o la converte
In maledizion, e su la testa
Folgorando allo iniquo la ripiomba. —
Scostati dagli altari: — un giorno Dio
Ti ruggirà su l'anima, e la impronta
Vi scorgendo del sangue: — Immaculata —
Ei dirà — e casta ella da me partissi,
Perchè l'hai sozza? Non è più mia figlia.
Scostati dagli altari. — Oza protervo
Un fuoco arse celeste, e Core un fuoco
Terreno incese. Una fraterna guerra
Pugnasti, — una fraterna alma sciogliesti;
E vuoi compagno a' tuoi misfatti Iddio?
Tu non se' degno ch'ei la man ti posi
Grave, tremenda sul capo, e ti sperda.
Miserabile! — il fulmine è serbato
A più alti delitti. — Al tuo... gli orrori
Bastano della notte, e lo sognate
Fantasime crucianti del rimorso,
E la paura del fuoco infinito. —
Ma Dio t'insegue: — oh! qua ti volgi; — vedi
Questa bara? sai chi racchiude? — Il tuo
Nepote atrocemente assassinato. —
Tra il santuario e te, frapposto ha Dio
Il tuo delitto.
_Gualfredi_ Ahi! che innocente io sono.
_Lotterin._ Sì, — come Giuda. Se tal sei, t'accosta,
Vieni, e lo giura sul capo del morto...
Ma temi che non scorra dalle peste
Narici il sangue su le labbra; temi
Non venga a ribollir spumoso... temi
Fino all'inferno non si avvalli il suolo.
_Gualfredi_ Padre! non sono io reo...
_Lotterin._ Giuralo...
_Gualfredi_ Il giuro...
_Lotterin._ Tu tremi?
_Gualfredi_ Sì... ma di pietà...
_Lotterin._ Si scopra
Il cadavero: or vieni... Oh morte eterna!
Tua figlia!
_Gualfredi_ Cristo! Lasciami...[32] O diletta!
_Lotterin._ Scostati; — è morta!
_Tutti_ È morta!
_Gualfredi_ O Bianca!... o figlia,
Nell'ora del dolor vegliami, o Dio,
Che la morta ragion l'alma non stringa
Al fiero passo dei martirii eterni.
_Manente_ Io non ho vena che non tremi tutta. —
Rendiamci a Lui che volentier perdona;
Geri... rendiamci... a... Dio.
_Geri_ Sul capo nostro
Piovve commista al maledir di Dio
La linfa del battesmo: eternamente
Dannati... il cielo per tremar non s'apre...
Gemi, codardo? — In me ti affisa... io voglio
Che ben degno di lui m'abbia l'inferno.
ALLUSIONI STORICHE.
Pag. 424.
_Appiè del letto_
_Starsi un demonio che vi guata fiso._
Questa credenza religiosa era comune a quei tempi. Nello _Specchio della
vera Penitenza_ trovasi un fatto molto somigliante all'esposto; non sia
grave di leggerlo qui trascritto. — «E' fu uno cavaliere in Inghilterra
prode in arme, ma di costumi vizioso, il quale gravemente infermato, fu
visitato dal re che era uno santo uomo; e indotto che dovesse
acconciarsi nell'anima, confessandosi come buon Cristiano, rispose, e
disse: Che non era bisogno, e che non voleva mostrare di aver paura, nè
essere tenuto codardo o vile. Crescendo la infermità, e il re un'altra
volta venne a lui, e confortandolo, e, come aveva fatto prima,
inducendolo a penitenzia e a confessare li suoi peccati, rispose: Tardi
è oggimai, messer lo re; perocchè io sono già giudicato e condennato,
chè male a mio uopo non vi credetti l'altro giorno quando mi visitaste,
e consigliastemi della mia salute, che, misero a me! ancora era tempo di
trovare misericordia. Ora, che mai non fossi io nato! m'è tolta ogni
speranza; chè poco dinanzi che voi entraste, a me venneno due bellissimi
giovani, e puosonsi l'uno da capo del letto, e l'altro da piè, e
dissono: Costui dee tosto morire; veggiamo se noi abbiamo nessuna
ragione in lui. E l'uno si trasse di seno un piccolo libro scritto di
lettere d'oro, dove, avvegnachè in prima non sapessi leggere, lessi
certi piccoli beni e pochi ch'io aveva fatti nella mia giovanezza,
innanzi che mortalmente peccassi: nè non me ne ricordava. E avendone
grande letizia, sopravvennero due grandissimi, nerissimi e crudelissimi
dimoni, e puosono innanzi a' miei occhi uno grande libro aperto, ove
erano scritti tutti i miei peccati, e tutti i mali ch'io aveva mai
fatti, e dissono a quelli due giovani ch'erano gli angioli di Dio: Che
fate voi qui? conciossiachè in costui nulla ragione abbiate, e il vostro
libro, già è molti anni, non sia valuto niente. E sguardando l'uno
l'altro, gli angioli dissono: E' dicono vero. E così, partendo, mi
lasciaro nelle mani dei dimoni: i quali con due coltella taglienti mi
segano l'uno dal capo, l'altro da' piedi. Ecco quelli da capo mi taglia
ora gli occhi, e già ho perduto il vedere. e l'altro ha segato infino al
cuore, e già non posso più vivere — E dicendo queste parole, si morì.» —
Dante, al XXVII dell'_Inferno_, tal fa parlare Guido da Montefeltro:
Francesco venne poi, com'io fu' morto,
Per me; ma un de' neri cherubini
Gli disse: Nol portar; non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra' miei meschini,
Perchè diede il consiglio frodolente,
Dal quale in qua stato gli sono a' crini;
Ch'assolver non si può chi non si pente;
Nè pentere e volere insieme puossi,
Per la contraddizion che nol consente.
O me dolente! come mi riscossi,
Quando mi prese, dicendomi: Forse
Tu non pensavi ch'io loico fossi!
E al VI del _Purgatorio_, non con diversa immagine si esprime Buonconte
figlio dello stesso Guido.
Pag. 425.
_Il terzo giorno ciberò del pane_
_Nel vin temprato su l'arca del morto._
La causa di parlare siffatto è manifesta dal Commento che fa il Landino
al verso del Canto XXXIII del _Purgatorio, — Che vendetta di Dio non
teme suppe_. «Creda che Dio ne farà vendetta.»
Referisce lo Imolese che in Firenze era opinione, che chi avesse
commesso omicidio, e mangiasse sopra il corpo del morto una zuppa, non
potea dipoi per vendetta esser morto: e il figliuolo di Dante, il quale
commentò questa Commedia, afferma che in questi tempi, quando alcuno dei
grandi cittadini era stato morto nella nostra città, i propinqui
guardavano la sepoltura insino a nove giorni che alcuno non vi mangiasse
zuppa.
Pag. 427.
_Oretta, — Oretta, non ti vedrò più!_
_L'eco dei monti gli risponde — più. _
Questa idea fu suscitata da quel verso di Byron nella _Fidanzata
d'Abido_, «Where is my child? an Echo answers, Where.» — Byron poi
confessa di averla tolta da un manoscritto arabo citato nelle note dei
_Piaceri della Memoria_, che dice: «I came to the place of my birth and
cried, the friends of my youth, where are they? and Echo answered, Where
are they?»
Pag. ivi.
_Mesto mesto incamminasi al piviere ec._
Da tutti i monumenti storici della età della quale trattiamo, agevol
cosa è rilevare _pivieri_ dirsi li scompartimenti dei contado oggidì
chiamati cure e parrocchie; qui poi Piviere sta propriamente per la casa
del Pastore, che ora intendo nominare Canonica: _sere_ essere il titolo
del sacerdoti e dei notaj, che or tuttavia questi ultimi conservano,
avendolo i primi mutato col don; e mastro, o maestro, quello dei medici.
Pag. 429.
_Il libro della vita è scritto._
La quistione sul libero arbitrio, di cui si fa motto nella Scena
presente, era la favorita dei tempi. Dante nel VII dello _Inferno_ aveva
attribuito una qualche influenza alla fortuna su le azioni umane. Cecco
di Ascoli, che trasse l'oroscopo alla figlia del duca di Calabria, e per
influsso di pianeta chiarì entrambi sagacissime femmine, che, come
astrologo fu abbruciato a Firenze, stimando aver tolto l'Alighieri il
libero arbitrio, nel suo poema l'_Acerba_ acremente il rimprovera al
passo che comincia: _In ciò peccasti, o Fiorentin Poeta_: il quale per
esser riferito dai Tiraboschi, dal Ginguené, dal Pignotti e da molti
altri, non riportiamo. Niuno però era più che Dante convinto del libero
arbitrio; la sua dottrina in questo proposito è chiara pel discorso che
fa tenere a Marco Lombardo al XVI Canto del _Purgatorio_, e più anche
per li due terzetti del Canto XVII del _Paradiso_:
La contingenza, che fuor del quaderno
Della vostra materia non si stende.
Tutta è dipinta nel cospetto eterno.
Necessità però quindi non prende,
Se non come dal viso in che si specchia
Nave che per corrente giù discende.
Nel qual luogo dimostra come la prescienza di Dio non è contraria al
libero arbitrio; la imagine della nave è stata imitata da noi, come ad
ognuno è manifesto. Se poi ella sia buona ragione, a noi non istà a
dire; avvertiremo solo che qualunque ama sprofondarsi per queste
astrattezze, materia di ben molte meditazioni metafisiche intorno a ciò
potrà rinvenire nella LXIX delle _Lettres Persanes_ di Montesquieu.
Pag. 430.
_Era un Palmiero._
Questa voce fidiamo non ci sarà rimproverata sì come obsoleta, dacchè il
Grossi l'ha tante volte adoperata nei suoi _Lombardi alle Crociate_; pur
chi amasse conoscerne la proprietà, legga questo passo di Dante tratto
dalla _Vita Nuova_, che comenta il Sonetto _Deh! peregrini, che pensosi
andate_. «E però è da sapersi che in vari modi si chiamano le genti che
vanno al servigio dello Altissimo: chiamansi Palmieri, in quanto vanno
oltremare, là onde molte volte recano la palma. Chiamansi Peregrini, in
quanto vanno a Galizia, perocchè la sepoltura di San Iacopo fu più
lontana dalla sua patria che d'alcuno altro Apostolo; chiamansi Romei,
in quanto vanno a Roma, ecc.»
Pag. 435.
_D'immota eternità mobili figli._
E a me sempre giunge lieto il momento in ch'io posso fare onorevole
ricordanza del Pacchiani, che tolse benevolo a scabbiarmi l'anima.
Quest'uomo nato per ingrandire le menti, seguendo troppo bene il
consiglio del gran cancelliere Bacone, _che l'uomo che sa tutto,
compendia tutto_; tale definiva il tempo, scientificamente, in due
parole: _È la durata misurata_; poeticamente: _È il figlio mobile della
eternità immobile_. Entrambi i modi fanno disperazione di dir meglio.
Pag. 445.
_Volea tenerne il cugin nostro — a forza._
Secondo l'albero della famiglia de' Cancellieri, che si trova nelle
_Memorie storiche_ del Fioravanti, Lemmo e Gualfredo erano cugini in
primo grado; Dore e Vanni, o Geri, In secondo: noi, alterando la Storia,
accostammo i gradi della agnazione. Chi non ne indovina il perchè, è
indegno che gli sia detto.
Pag. 449.
_Per trescare una danza in campo azzurro._
Questa, e ben altre frasi, come — _Dar de' calci al rovaio — Mandare in
Piccardia — Ballare nel paretaio del Nemi — Serrare il nottolino —
Salire senza scale,_ ec. — adoperavano i nostri antichi a esprimere
quello che più apertamente significavano coll'appiccare per la gola,
come si usa cogli uomini di garbo.
Pag. 455.
_O auguste mura dei miei padri._
Damiata veramente era un castello che apparteneva ai Neri; e questa è
nuova alterazione della Storia. Nella cacciata dei Neri, seguita nel
1301, fu insieme con altri nobilissimi palazzi atterrato, come da tutti
gli Storici.
Pag. 468.
_Quindi additava l'arme._
L'arme di questa famiglia, conservata dal solo ramo dei Cancellieri del
Bufalo, non era già un lione, ma sibbene un porco in campo liscio. Anche
adesso quest'arme si vede in Pistoia sul palazzo di detta famiglia,
estinta sul finire del secolo scorso, ed ora posseduto dal cavaliere
Ganucci Cancellieri, che colla eredità ne prese il casato.
Pag. 470.
_E quale ebbe Fiorenza_
_Vivo colore. _
Famosi furono i Fiorentini per conciare i panni: principale artificio
appo loro era la tintura. Formavano i tintori un corpo separato dalla
lana, ma erano tenuti a mallevarla di 300 fiorini d'oro. Un ufficiale
particolare, chiamato _dalle magagne_, aveva cura d'invigilare alla
buona tintura; laddove si fossero trovati i colori falsi, o meno buoni
di quello che dovevano essere, i tintori erano puniti come falsarii.
Ognuno poi sa lo scarlatto essere il panno a que' tempi maggiormente
usitato. Vedi Pignotti, _Comm. dei Toscani_.
Pag. 473.
_Sua dimora ha tolto_
_Fra Lotteringo._
Questo frate gaudente vivea a Pistoia, e si chiamava Bertacca, ed era
de' Cancellieri. Noi abbiamo variato il nome di Bertacca in Lotteringo,
siccome poco poetico. Chi vorrà leggere il passo seguente delle _Storie
Pistoiesi_, potrà conoscere quanta sia la confusione de' fatti del
Landino e del Machiavelli, che riportammo a principio dell'Opera.
«Veggendo li figliuoli di messer Rinieri Canceglieri e gli altri Bianchi
di Pistoia che la parte Nera salía, e la loro scendea, pensarono di
voler vendicare la morte di messer Bertino, e uccidere uno dei maggiori
caporali della casa de' Canceglieri della parte Nera, e ordinarono col
Focaccia e col Fredduccio di messer Lippo, che era uno nipote di messer
Bertino, che lo dovessino fare; e quando ebbono ciò ordinato, ebbono
loro fanti, e stavano in posta che messer Detto di messer Sinibaldo de'
Canceglieri Neri venisse alla piazza de' Lazzari; e perocchè alcune
volte vi soleva venire, non guardandosi da' consorti suoi, che non
credea che volessero fare le vendette altrui nel sangue loro medesimo.
Onde, un dì venendo messer Detto alla detta piazza, e entrando in una
bottega di uno che gli facea un farsetto di zendado, presso a casa de'
figliuoli di messer Ranieri, lo Focaccia e Fredduccio, con certa
quantità di fanti, entrarono nella detta bottega, e quivi lo uccisono, e
partironsi. Lo romore si levò per la terra, e grande gente trasse da una
parte e dall'altra: molto fue tenuto danno di lui, perocchè era lo più
gagliardo della casa. Onde seguitarono tra loro aspre e forti battaglie,
e fue l'una parte e l'altra mandata ai confini, salvo che rimase messer
Bertacca padre del Focaccia, perchè era cavaglieri Gaudente, vestito a
modo di frate.» — Qual poi bramasse saper chi questi Gaudenti si
fossero, dove si adoperassero, e come vestissero, poche linee del
Fioravanti il chiariranno: «Quest'ordine di cavalieri, confermato da
Urbano IV, fu creato per pacificare le fazioni guelfe e ghibelline, e
quelli che vestivano l'abito di questo ordine si chiamavano cavalieri di
Santa Maria, e come altri vogliono, i cavalieri Mariani, o frati della
Madonna. I quali portavano un abito bianco, ed un mantello bigio,
entrovi una croce rossa con due stelle rosse in campo bianco, e vivevano
nelle loro case con mogli e figliuoli esenti dalle comuni imposizioni; e
chi non era nobile, non poteva essere di quest'ordine, e vivevano assai
esemplarmente.» — Dante ne caccia due nell'Inferno.
Pag. 476.
_Ma temi che non scorra dalle peste_
_Narici il sangue._
Superstizione. Tommaso Tomai, fisico da Ravenna, a p. 222 del suo
_Giardino del mondo_, queste cose riferisce. «Fra le rose memorabili del
sangue, non resterò di dire, come il sangue del morto per ferite, venuto
alla presenza del malfattore, lo scopre, uscendo fuori dello ferite; e
oltre i moltissimi esempi ch'io potrei addurre, ne dirò uno notabile,
narratomi dal signor Biagio dell'Orso da Ravenna, dottore illustre e
grandissimo pratico nelle cose criminali; ed à che ritrovandosi egli al
servizio del serenissimo signor duca di Mantova in Mombello, casale in
Monferrato, avendo uno di notte ammazzato uno frate di Santa Maria delle
Grazie di Trino, che non si sapeva, dopo l'essere il frate sei ore
morto, e trovato la mattina cadavero secco e agghiadato, essendo ivi
concorso molto popolo, non si vide alcuna mutazione, ma fatto chiamare
uno che si trovava in qualche sospetto, subito giunto alla presenza del
morto, il sangue uscì fresco talmente dalle ferite, che trapassando il
letto mortorio, arrivò fino a terra, non senza grandissimo stupore di
quelli che v'erano presenti. Laonde preso e condotto alle carceri, dopo
alcuni tormenti datogli, avendo confessato il delitto, fu condannato a
morte dal suddetto signor Biagio.» — In fine di certa difesa fatta per
un accusato di perduellione, da Carlo Antonio Rosa marchese di
Villarosa, innanzi il marchese di Vigliena duca d'Ascalona, vicereggente
del Regno di Napoli del serenissimo duca d'Angiò, la quale comincia
«Eccellentissimo Signore, l'infelice Ferdinando Ballati, a cui
l'avvocato fiscale a guisa di _Marte_ minaccia la _morte_, ricorre oggi
a _Giove_, qual è l'Eccellenza Vostra, ec.» si leggono le presenti
parole: «Ciò nonostante fu condannato a morte; contro la qual sentenza
furono da me proposte le nullità, ma nondimeno fu confermata. Avvenne
poi che per un giorno intero si vide sgorgar vivo sangue dalla bocca e
dalle narici del suo cadavero: il che diè motivo a molti d'intingere i
fazzoletti in quel sangue, e di credere ch'egli fosse innocente.»
CONCLUSIONE.
Addio, libro. Senza me tu vai alla bella Firenze. Uscito dai domestici
lari, adesso come nave testè varata ti aspettano i flutti e le procelle
del pubblico. Dio ti preservi dal sinistro! Ma dove mai ti sorprendesse
l'uragano, rammenta che se favellasti parole forse acerbe, tu non
sapesti dirle mai codarde, nè sleali. — Il padre tuo può errare
inconsultamente, ma errare e nuocere con deliberato animo non mai: e
quante volte egli non potè usare la libertà del parlare intera, comprese
tutta la dignità del tacere.
Adesso poi mi assicurano giunta la felicità dei tempi nei quali ti è
concesso manifestare quello che senti _con fronte liberal che l'alma
pinge_;[33] adesso mi accertano il Supremo Correttore essersi persuaso
che la Storia
Plaude a re che apparecchia appoggio e strada
A legge che menzogna in volto accenna
All'uom, che meno è accorto, e men vi bada:
A quei, che franca agli Scrittor la penna,
E va per prova di arte al lido amico.
Accerta il corso, e poi muove l'antenna.[34]
Onde io sperimenterò i tempi scrivendo più spesso che io non soleva, me
consultando e il mio genio, però che poco mi talenti procedere in
compagnia, e mi abbia giovato assumere per divisa quel motto di
Michelangiolo:
Io vo per vie più disusate e solo.
E quando le cose (il che non piaccia a Dio) camminassero diversamente da
quello che io aveva immaginato, tornerò a tacermi o a stampare fuori di
paese, aborrendo per istituto e per carattere la stampa clandestina.
La stampa clandestina accenna sempre due cose: o suprema necessità o
suprema codardia. Suprema necessità, quando dovere cittadino o carità di
patria o altro qualunque affetto magnanimo ti costringono ad aprire
l'animo tuo, e tu non puoi farlo senza grave pericolo. Allora se le tue
parole non suoneranno vili, non ingiuriose o procaci, ma dignitosamente
libere, ove non te ne venga lode sfuggirai il biasimo certamente; o se
biasimo alcuno sarà da compartirsi, ne terranno meritevole non te, ma
quello che avvezzo a unire il fulmine ai suoi voleri ti costrinse. Fuori
di questo caso parmi che colui che si tiene celato sia degno di
riprovazione. Dicesse anche il vero, poichè adoperava, dicendolo, le
arti della menzogna e della frode, ha da portare le pene dei
fraudolenti. Le cose sincere voglionsi rivelare sinceramente, perchè
dobbiamo sperare che vi sieno orecchie disposte a intenderle e animi
pronti ad approvarle. Quando mai alcun danno incogliesse al franco
parlatore, egli otterrà nella sentenza che lo condanna un arnese di
ferro col quale arroventato marcare in fronte chi osò giudicarlo. La
esperienza insegna due essere Tribunali, uno nella curia, l'altro nel
fôro, e inique le sentenze di quella dove non ratificate e confermate
dalla libera coscienza di questo. Poco, a vero dire, conforto nelle
cause ov'è lite di averi: grandissimo e supremo quando si contende di
fama. Nel 20 febbraio 1774, mentre il Parlamento Meaupou condannava
Beaumarchais a fare ammenda onorevole in ginocchioni, ed ordinava che le
sue Memorie fossero _lacérés et brûlés au pied du grand escalier du
Palais par l'exécuteur de la haute justice, comme contenant des
expressions et imputations téméraires_ ec., si stampavano e vendevano
10,000 copie di coteste Memorie. _La cour et la ville_ si recarono a
casa sua per salutarlo, e il principe di Conti lo conduceva seco a
pranzo dicendo: «sentirsi nato da famiglia abbastanza illustre per dare
lo esempio del come dovessero onorarsi i grandi cittadini.» Insomma,
chiunque è vago della lode di onesto, o taccia od abbia il coraggio
della condizione in cui favellando si pose.
Corrono adesso molti anni che a me, preposto alla direzione del Giornale
lo _Indicatore Livornese_, pervenne lettera anonima di preghiera a
stampare gravissimi addebiti contra diversi scrittori del Giornale, e
più specialmente contro uno. Mandai subito la lettera a questo uomo, il
quale accorse premuroso interrogando se intendessi pubblicare cotesta
diatriba in suo vituperio. Risposi: avergli mandato lo scritto perchè se
mai alcuna cosa vera contenesse, con la debita ammenda la riparasse; se
falsa, stesse con tranquillo animo e disprezzasse.
Io poi, dato alle fiamme lo scritto, così ammoniva severamente l'anonimo
scrittore nel nº 28 del Giornale, 7 settembre 1829:
AVVISO
Dixerunt ei: — _Quid venit insanus iste ad te?_
Qui ait eis: _Nostis hominem._
_Regum_ IV, 9.
Con la posta del 30 agosto pervenne alla direzione dell'_Indicatore
Livornese_ uno scritto anonimo intorno diversi articoli di questo
Giornale. — Noi siamo dolenti d'impiegare alcun verso del nostro Foglio
onde fargli convenevole risposta; ma dacchè in altro modo non sapremmo
come manifestare le nostre intenzioni all'ignoto scrittore, così è pur
forza che i nostri _Associati_ se ne chiamino contenti. — Ora dunque, e
sia qualsivoglia l'Anonimo, apprenda che male dimostra conoscere la
indole nostra se crede con perfida lusinga indurre noi a collegarci seco
in altrui vituperio. Per quanto serba dominio la volontà sopra le azioni
umane, ci serberemo incontaminati da ogni bassa voglia, da ogni vile
talento, dalle invidie, dalle ire solite a turbare gl'ingegni che
muoiono in un punto stesso _alle memorie e alla vita_. Finchè lo
consentono i cieli (e sempre spero il consentiranno), la mano che verga
questo scritto si manterrà degna di stringere qualunque altra mano
Italiana. Sono le lettere un sacerdozio morale, e guai a colui che sotto
aspetto diverso le considerasse! — Gli tornerebbe in danno la sua stessa
dottrina, e la sua fama sarebbe quella di Erostrato! — L'attitudine a
bene scrivere largita a pochi avventurosi, se volta a ritrarre le
immagini di una calda fantasia, ossivvero ad esporre sentenze di utili
dottrine, feconda fiori immortali a quegli avventurosi; — adoperata in
turpi litigi, vuolsi paragonare alle spade della patria affidate ai suoi
figliuoli per la propria salvezza, e che nell'ira del vino si cacciano
forsennati nelle viscere.
Percorrendo la storia delle sepolte generazioni, gemiamo di sdegno per
le risse letterarie del Poggio, del Filelfo, di Giorgio da Trebisonda,
del Valla e degli altri uomini dotti del quattrocento. Nel sesto secolo
vediamo un Castelvetro comprare da un sicario l'anima di Alberigo Longo
colpevole di averlo biasimato, e Castelvetro fuggirsi nudo per la notte
dalle case che gli aveano incendiato gli offesi dalla sua penna mordace:
— prostituire Annibal Caro _i sacri studi, e le onorate scuole, onde è
simile a Dio la nostra mente_,[35] in turpi motteggi contro quel
_veglio, di cui lo stil, l'inchiostro, e le parole, son la rabbia, il
veleno, il ferro e il dente_.[36] Insaniscono vituperati l'uno contro
l'altro l'Aretino e il Berni. Sacrilego Bettinelli abate si accosta alla
venerata urna di Dante, e ne conturba le ossa; altri ardisce angustiare
l'anima grande di Vittorio. — Ma perchè non paia che noi, siccome ne
avemmo rampogna, più che non convenga ci dilettiamo a cercare per le
colpe umane, ci rimanghiamo dal noverarle più oltre. — Forse vorrà
alcuno gittarci sul volto il nostro stesso esempio, e ci dirà: Tu pure
trascorresti alla ingiuria vergognosa. — Altri coll'altrui esempio si
difenda, non già noi: _peccavi_!.... Ma se alcuna notte vegliammo su i
volumi del vero, se di qualche speranza facemmo lieta la patria, ci sia
rimesso il peccato. Non si conti quel giorno nei giorni dei nostri
anni:[37] noi ne daremmo cento perchè fosse obbliato.
Dunque non saremo migliori mai dei padri defunti? Andrà perduto il
tesoro della esperienza, e dalle passate sventure non ritrarremo nè
anche il retaggio del sapere? Nello spazio brevissimo in cui viviamo
enti pensanti tra polvere e polvere, non ci ameremo mai?
Certo comparvero nel nostro Giornale alcuni scritti immeritevoli di
lode: — basti il rifiutargliela; ma si vorranno biasimare gli animi
pronti, la voglia amorosa che indusse quei cortesi ad adoperarsi in prò
di questo patrio instituto, mentre altri poltriva in ozio neghittoso? —
Dovranno incontrar male per bene? — Forse distesero un cattivo scritto,
ma fecero una buona azione; e se intendiamo biasimare le buone azioni,
noi non vediamo cosa altro ci rimanga ad operare se non che commendare
le pessime.
Imitino questi oscuri Scrittori la modestia dell'_Indicatore Livornese_:
— quale è il libro che sia stato da noi con parole amare ripreso? — Il
tempo vuole le _sue giustizie_ sopra le triste scritture, e noi lasciamo
adoperare a questo unico riparatore dei torti la sua potenza. Le
discipline gentili non si promuovono con gli esempi del pessimo; la
mente e il cuore si scaldano davanti ai simulacri di eterna bellezza, nè
Longino e gli altri retori innamorarono le genti del _sublime_ con i
falli di Omero.
L'anonimo Scrittore, forse _classico_ abbastanza da aver letto le male
arti delle Sirene nella _Odissea_, stimò col suono della lusinga assopir
noi onde gli offrissimo mezzo di avvilire la lama di un individuo. —
Anonimo, anonimo, rammentati che Ulisse si turò le orecchie, e passò
illeso dal canto pericoloso, come noi dalle tue adulazioni. — Ogni uomo
rende pur troppo, e più che non crede, strettissimo conto davanti la
pubblica opinione delle opere sue; ma te chi fece, anonimo, giudice di
morale? — Forse la fama candidissima, forse il retto costume? — Mostrati
allora a viso aperto, e vediamo se tu sarai quegli che devi scagliare la
prima pietra.
Ora dunque io voglio che sappiano, che per anni e per vicende non mutato
in nulla, molto meno avrei saputo o voluto mutarmi in queste norme di
onesto vivere civile, e che io respingo da me con disprezzo il sospetto
di potermi tanto avvilire da scoccare dalla corda di pelo di volpe dardi
velenosi riparato dietro l'anonimo. Io ho detto sempre a viso aperto, a
mio rischio e pericolo, quanto mi parve dover dire; e Dio consentendo,
la mia giovanezza non avrà a vergognarsi della mia virilità.
NOTE:
[1] Comparisce Bianca.
[2] Una reliquia.
[3] La campana dell'_Ave Maria_.
[4] Dando una pugnalata a Dore.
[5] Dore para il colpo, e ferisce Geri in una mano, che cadendo gli
lascia il suo mantello.
[6] Incespica, e cade in ginocchio.
[7] In apprestandosi a fasciargli la piaga.
[8] Si alza turbato, e fattosi al balcone, l'apre, e dopo aver
considerato alcun poco il sol nascente, torna là donde si era mosso.
[9] Cassa dalla lista il nome del fratello.
[10] Segna i nomi del fratello e del nipote su la lista dei proscritti.
[11] Mostra il mantello di Geri.
[12] Fermando Geri.
[13] Volgendosi a Gualfredo.
[14] Torna a cassar dalla lista dei proscritti i nomi del fratello e del
nipote.
[15] Si adopra in qualche modo a cancellare le tracce del sangue, e
rimane meditando in quell'atto.
[16] Lo trae al luogo d'ond'ella rimosse le tracce del sangue.
[17] Accennando la porticella del palazzo.
[18] Facendosi verso un balcone.
[19] A Manente.
[20] A Lemmo.
[21] Lascia cadersi oppresso da grave dolore sopra una sedia.
[22] Levandosi furente
[23] Fa atto di svellersi gli occhi.
[24] Lo rattiene pietoso.
[25] A Geri.
[26] Siede, e pone la testa tra le mani.
[27] Si assopisce a' piè dell'arca.
[28] Lasciano la torcia a un braccio della bara.
[29] Alza il manto della bara.
[30] Cade sulla bara, e rimane coperta dal manto.
[31] Gualfredo a Geri.
[32] A Uberto che il trattiene.
[33] Parini.
[34] Pacchiani.
[35] Sonetti di Annibal Caro contra il Castelvetro.
[36] Idem.
[37] Job III.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.
End of Project Gutenberg's I Bianchi e i Neri, by Francesco Domenico Guerrazzi
*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 47888 ***
I Bianchi e i Neri: Dramma
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Excerpt
Tu porterai novelle di sospiri
Piene di doglia e di molta paura;
Ma guarda che persona non ti miri
Che sia nemica di gentil natura.
GUIDO CAVALCANTI.
MESSER GUALFREDI.
MESSER GERI _suo figlio_.
BIANCA _sua figlia_.
MANENTE.
GUIDO.
NELLO, _ed altri Fanti_.
UBERTO _capo di masnada_.
VANNI.
UGHETTO.
BACCIO.
DONATO _ed altri...
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— End of I Bianchi e i Neri: Dramma —
Book Information
- Title
- I Bianchi e i Neri: Dramma
- Author(s)
- Guerrazzi, Francesco Domenico
- Language
- Italian
- Type
- Text
- Release Date
- January 6, 2015
- Word Count
- 16,676 words
- Library of Congress Classification
- PQ
- Bookshelves
- IT Teatro in versi, Browsing: Literature, Browsing: Performing Arts/Film
- Rights
- Public domain in the USA.
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